Film

Dogman, quando anche un cuore gentile può uccidere

Garrone riparte da Castel Volturno, dal villaggio Coppola, dove aveva girato L’imbalsamatore sedici anni fa. Riparte da quelle atmosfere da periferie in preda al degrado e destinate a essere dimenticate dal resto del mondo che continua a girare indifferente della loro esistenza. Viene facile infatti accostare Dogman al film del 2002, entrambi ritraggono personaggi ai margini della collettività, inseriti in una micro società con le proprie regole e i propri luoghi. Entrambi prendono, molto liberamente, spunto da storie di cronaca nera realmente accadute e riportate da Vincenzo Cerami in Fattacci, libro in cui lo scrittore analizza quattro casi di cronaca tra i quali quello del nano tassidermista di Termini (L’imbalsamatore) e quello del canaro, da cui Dogman appunto.

In una giungla di casermoni fatiscenti, frutto di uno dei più vasti casi di edilizia abusiva in Italia, tra parchi acquatici dimenticati e parchi giochi inutilizzati, si aggira Marcello. Omino mite che si occupa di toelettature per cani, è ben voluto da tutto il quartiere e padre di una bambina che adora. Nel suo usuale raccontare una storia attraverso il rapporto simbiotico tra individuo ed ambiente, Garrone parte dalla dolcezza del protagonista per sviluppare il resto della pellicola. Quell’inferno di cemento, talmente cadente da sembrare una scenografia teatrale volutamente esagerata, è il simbolo di un certo tipo di società che se n’è andata per non tornare più. Il villaggio Coppola, dove è stato girato il film, negli anni sessanta era un rigoglioso villaggio vacanze immerso nel verde, popolato da famiglie, pieno di vita nelle stagioni estive di giorno come di notte. Emblema di un’Italia figlia del boom economico fatta di prospettive di benessere, negli anni vengono riversate moltitudini di persone per ovviare a situazioni edilizie precarie o per alleviare situazioni di alta densità abitativa in altre zone della Campania. In seguito a infiltrazioni camorristiche nel villaggio si sviluppano condizioni di degrado e abbandono che si possono vedere ancora oggi. Nonostante Dogman sia ambientato in una ideale borgata romana, il contesto in cui vive Marcello è quello. Garrone decide di far sopravvivere una tenerezza nel protagonista che abbraccia tutta la pellicola e che è fortemente in contrasto con le condizioni degradanti del posto in cui vive. Il regista romano ci insegna a voler bene al canaro ed effettivamente i suoi modi gentili, la sua mitezza, e il suo rapporto con la figlia e i cani che cura (oltre all’ottima interpretazione di Marcello Fonte) aiutano il regista nell’intento.

Solo che Dogman è la storia di un uomo che viene spinto al limite, tanto da non poter tener dentro la bestia che giace in profondità in ognuno di noi. A spingere Marcello nell’abisso ci pensa Simoncino (Edoardo Pesce), enorme bullo di periferia, violento e provocatore, odiato da tutti. Il rapporto tra i due, fatto di soprusi e intimidazioni, è malato, a metà tra un’amicizia pericolosa e un caso di sindrome di Stoccolma.

La grande abilità di Garrone è riuscire a dare un’anima a Marcello, a far comprendere un gesto orribile al pubblico senza rinunciare a evidenziarne la sua gravità. Non c’è ricerca di giustificazione nei confronti del canaro, non c’è assoluzione. Però ci caliamo nei panni del protagonista, empatizziamo con lui e non possiamo che chiederci cosa avremmo fatto in quella situazione al posto suo. Anche la più gentile delle persone può sopportare fino a un certo punto. La prima scena del film anticipa tutto, in un certo qual modo. Marcello deve fare lo shampoo a un cane violento e aggressivo che riesce a domare attraverso la propria pazienza e la sua tenerezza. Una mitezza che è riuscita, quasi per miracolo, a sopravvivere a quei luoghi ma che viene definitivamente spazzata via dalla prepotenza di Simoncino. Una volta andata via quella, Marcello non ha più strumenti per domare la bestia che scalpita per mordere.

Ancora una volta Garrone si dimostra essere pienamente a suo agio nel raccontare un’umanità ai bordi della società, con le sue fragilità e le sue bellezze sempre a pari passo agli orrori di contesti ove non ci può essere spazio per le debolezze. Sedici anni dopo L’imbalsamatore dimostra di essere cresciuto e maturato e di saper gestire una vicenda ben più scabrosa con rara sensibilità e un gusto per l’immagine unico nel nostro paese.

Marco Possiedi

Nato alle pendici delle Dolomiti e studente di Psicologia. Appassionato in primo luogo di divani e di conseguenza poi della settima arte, tra un tiro a canestro e un film di Terry Gilliam, passo le mie giornate ad aspettare la lettera di ammissione ad Hogwarts che si sa che i gufi non funzionano più come quelli di una volta.
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