
È ricca, la sposo, l’ammazzo – o la Bibbia delle commedie
Se proprio dobbiamo trovare un difetto a questo film, è che per quanto vi impegniate non riuscirete a restare composti; perché È ricca, la sposo, l’ammazzo è esattamente come un romanzo di P. G. Wodehouse: raffinato, elegante, esilarante. Non del tipo che fa sorridere, ma di quello che vi fa cadere a terra tenendovi la pancia, per intenderci. Per il resto, questa commedia del 1971 che sembra british ma in realtà è americanissima è un piccolo gioiello di umorismo.
New York, ambiente upper class che più upper class di così non si può: Henry Graham, un Walter Matthau calatissimo nella parte e parecchio divertito, è un rampollo dell’alta borghesia poco avvezzo alle virtù del risparmio, che a forza di Ferrari, cavalli e aerei privati si ritrova senza un centesimo; di lavorare ovviamente non se ne parla, e allora che cosa può fare uno che nella vita “non ha mai voluto essere altro che ricco”? Beh, trovare una zitella dalle poche pretese e dalle laute rendite, sposarla e poi farla passare a miglior vita potrebbe essere la soluzione. E quale miglior partito di Henrietta Lowell – Elaine May, che di È ricca, la sposo, l’ammazzo è anche regista –, facoltosa botanica adorabilmente maldestra?
La trama di questo film è senza dubbio divertente, ma la vera forza sta nei dialoghi; dialoghi che oggi sarebbe impossibile proporre al grande pubblico, data la meravigliosa mole di subordinate, aggettivi e giochi di parole che costella È ricca, la sposo, l’ammazzo. Non per nulla il protagonista, un Lapo Elkann d’antan, ma infinitamente più colto, a detta del suo maggiordomo “ha riportato in vita tradizioni che erano già morte prima della sua nascita”: basta questa perla di raffinatezza e comicità a fare l’intero film. Alcune scene poi sono da manuale: Henry che percorre la Fifth Avenue mormorando incessantemente “sono povero”, Henry che si immagina con addosso un abito dozzinale che sembra arrivare direttamente dall’ultima collezione di Zara Uomo, Henry che si vede arrivare solleciti di bollette di società di cui una volta era azionista, Henry che prevede di esercitare “l’attività romantica con una compassatezza che viene dal disinteresse”.
È ricca, la sposo, l’ammazzo è anche, tra le righe, un manuale di buone maniere per l’alta società: ostentare il carattere il più delle volte è esecrabile, ci insegna Matthau, sorseggiare cocktail discutibili al posto di un bicchiere di vino è da “creature ferine, prive di qualsiasi risorsa sociale”, quando non addirittura una minaccia per la società occidentale, e badare troppo ai tappeti rischia di trasformarsi in un’ossessione erotica grottesca e noiosa.
Una menzione d’onore va alla servitù: dal maggiordomo, uno splendido George Rose che non può non ricordare il letterario Jeeves, ai discutibili domestici di Henrietta, fino al grasso e infido avvocato, che naturalmente nulla potrà contro l’arguzia di Henry. Il finale è scontato, ma È ricca, la sposo, l’ammazzo ha un ulteriore pregio: fino all’ultimo minuto, l’ironia prevale sui sentimenti. Il romanticismo è il grande assente, e d’altronde come potrebbe essere altrimenti con un uomo che nel giorno del suo matrimonio dichiara “io non voglio dividere le mie cose, le voglio tutte per me”?
È ricca, la sposo, l’ammazzo è come dovrebbe essere un film: arrivati ai titoli di coda, avrete immediatamente voglia di ricominciare.