Film

È solo la fine del mondo: l’ultimo film di Xavier Dolan è un capolavoro

Non ci sono parole per descrivere l’ultimo film di Xavier Dolan. Nemmeno trentenne e oramai famoso in tutto il mondo, il cineasta del Québec, con questa sua ultima fatica, consolida in novantacinque minuti tutta la sua carriera. Il giovane canadese, ora come ora, potrebbe tranquillamente appendere le scarpe al chiodo e darsi alla pesca con la mosca per i prossimi cinquant’anni.

È solo la fine del mondo è un lavoro intenso, profondo, da veterano. È un film isterico, schizofrenico, intimo. È una tragedia. È la messa in scena di un dramma. È una visione disturbante e disturbata. È solo la fine del mondo è già entrato nella Storia del Cinema. Xavier Dolan è già entrato nella Storia del Cinema. Il suo modo di fare cinema farà scuola.

Nessuno ha mai raccontato storie come le racconta Dolan. Dolan non si rivolge a un pubblico ristretto. Non è che Dolan sia “avanti” perché mette in scena qualcosa per “i pochi che lo possono capire”. Al giovane cineasta va riconosciuta una spiccata sensibilità, che, tradotta nel suo modo di utilizzare il linguaggio cinematografico, risulta di grande impatto, sia fisico che emotivo, ma, soprattutto, risulta per tutti. È proprio così: Xavier Dolan è il regista di tutti. E, che piaccia o meno, il suo modo di fare cinema non potrà non toccare le corde del vostro animo.

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In È solo la fine del mondo il protagonista è Louis (Gaspard Ulliel), uno scrittore malato terminale che non torna dalla sua famiglia da dodici anni. Decide così di partire, alla volta di casa, per riportare la triste notizia. Ad attenderlo ci sono un fratello maggiore collerico (Vincent Cassel), la moglie di lui, completamente sottomessa (Marion Cotillard), una sorella minore che risulta a Louis praticamente un’estranea (Léa Seydoux) e una madre innocentemente ingenua (Nathalie Baye).

Dolan si diverte, sa di essere bravo. Rispetto ai suoi film precedenti, a livello di estetica, di narrazione, di modalità della messa in scena, non c’è nulla di nuovo. Con È solo la fine del mondo Dolan compie soltanto un gesto: quello della sublimazione. Impossibile non gridare al capolavoro. Impossibile non rendersi conto di come questo sia effettivamente il lavoro della maturità. È l’apoteosi del suo cinema.

Come un grande chef dopo anni di ricerca e lavoro trova la ricetta perfetta per piacere e stuzzicare, Dolan, dopo sette anni (sette anni!) dal primo lungometraggio, consolida in novantacinque minuti tutta la sua poetica, organizzandola con una sapienza magistrale, elaborandola con una enorme perizia formale, dirigendo il tutto come un grande direttore d’orchestra.

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L’estetica di Dolan è quella che siamo abituati a vedere. Dolan è un lacchè dello spettatore. Dolan sfrutta il mezzo cinematografico per dare ancora più enfasi a quello che vuole esprimere. Dolan è pop. È per tutti. Non mancheranno dunque quei ralenti da capogiro che si configurano come base del suo cinema. Non mancherà quella musica extradiegetica volta continuamente ad enfatizzare il momento, a rendere catartico l’attimo. Non mancherà il suo montaggio frenetico, serratissimo, volutamente pacchiano, ma dannatamente affascinante.

In sottofondo a questo frame c'è Dragostea Din Tei. Fate voi.
In sottofondo a questo frame c’è Dragostea Din Tei. Fate voi.

Sono novantacinque minuti crudi, pesanti, quelli di È solo la fine del mondo. Dolan mette in scena un dramma sull’incomunicabilità, tema che sta al centro di tutto. Louis non riesce ad essere capito. Gli altri non riescono a capire Louis, a vedere lui e a vedere dentro di lui. Non c’è possibilità, non c’è spazio per nulla. In mezzo ai vari protagonisti c’è un vuoto incolmabile, una distesa che li separa drasticamente e che non permette loro di avvicinarsi. È solo la fine del mondo è un film fatto di primi e primissimi piani. La macchina da presa è sempre lì, indirizzata verso i volti degli attori che prendono parte a questo dramma. Non c’è spazio per i loro corpi. Non possono essere visti, conosciuti, mostrati, decifrati. Dolan non permette una via di fuga. Quello che riusciamo a vedere (noi, spettatori) è soltanto un susseguirsi di volti. Mai ci verrà permesso di scorgere realmente chi siano i protagonisti della vicenda. Noi non li conosciamo, loro non si conoscono.

È solo la fine del mondo è un racconto di corpi che non riescono a sfiorarsi, un racconto di uomini che non vogliono e non possono guardarsi, è un’analisi sociale spietata che pone l’essere umano stesso al centro della sua indagine, riducendolo a un misero puntino sperduto in universo divoratore. In una parata schizofrenica della durata di neppure due ore, Dolan pone davanti allo spettatore la figura di un uomo-alieno, solo al mondo e destinato a morire come tale.

Xavier Dolan è probabilmente il più grande intrattenitore cinematografico del ventunesimo secolo.

Lorenzo Montanari

"Il ragno rifugge dal bugigattolo, ma è ben attento alla preda. Sarà l'ora di fare un bagno, Edison?" Sestri Levante, Genova, Italia.
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