Film

Elvis: ritratto di un’icona

Classificazione: 4 su 5.

Mi hanno fregato le aspettative: dall’Elvis di Baz Luhrmann volevo qualcosa di diverso, di più grosso, più epico, più esplosivo. Intendiamoci: piagnere se piagne. Emozione a catinelle. Manca a mio avviso un guizzo di kitsch extra, che trova casa solo nel montaggio frammentario della prima parte.

È ancora possibile parlare di Elvis?

Sì, ma è davvero difficile. Presuppone la capacità di sovrapporsi a un substrato di narrazioni, rivisitazioni, leggende, che nell’immaginario collettivo scolpiscono l’Icona. L’Elvis silhouette, l’Elvis feticcio.

La sensazione è che Baz Luhrmann abbia rinunciato in partenza a raccontare la storia della vita di una persona, per tracciare invece in punta di matita il ritratto dell’Icona. Un indizio in questo senso è l’assunzione del punto di vista: la carriera dell’artista viene ripercorsa dall’antagonista, il colonnello Tom Parker interpretato da un irriconoscibile Tom Hanks, che in punto di morte difende il suo operato da manager.

Elvis Tom Hanks Austin Butler Baz Luhrman
Il subdolo colonnello e i suoi numerosi menti.

Pochi (splendidi) momenti dedicati all’infanzia di Elvis, e poi si parte per un viaggio folle e allucinato, verso la distruzione di una vita e una carriera.

Tre focus definiti

I temi su cu sceglie di concentrarsi Luhrmann, in questa epopea di due ore e mezza, sono essenzialmente tre:

  • L’integrazione; identificando in Elvis un motore di cambiamento e di inclusione rispetto ai cittadini afroamericani (grande l’attenzione dedicata ai funerali di Martin Luther King e di Kennedy).
  • L’emancipazione sessuale; di cui Elvis è ancora una volta ingranaggio, come oggetto del desiderio.
  • Lo showbusiness; che lo vede vittima, imprigionato in una torre d’avorio da persone senza scrupoli, drogato, manipolato.

Un Elvis progressista, insomma. E voi direte: manca qualcosa. Già. Manca parecchio – per scelta.

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Gli scandalosi movimenti di bacino (e la tenerezza che ci fanno oggi).

Una bellezza che non sfiorisce

L’Elvis di Austin Butler è intenso, ammiccante, sensuale (si direbbe viva dal mattino alla sera con le labbra socchiuse, fateci caso): sembra rinunciare a quel tocco di malizia e ironia che “sdrammatizzavano” la persona scenica di Elvis per lasciare spazio all’ombra, all’erotismo, al dramma.

Soprattutto, chiuso nel bozzolo dorato dai cattivi consiglieri, Elvis non evolve e non invecchia. Resta un adolescente ribelle, con torbidi occhi blu e zigomi grandi, senza che dal punto di vista del visivo vengano apportati cambiamenti sostanziali alla fisionomia di Butler – nel corso del tempo scenico. Il Colonnello si trasforma, si deforma, diventa vecchio al posto suo – come un ritratto di Dorian Gray, Elvis no.

Resta giovane e bello come il suo mito.

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Non chiude MAI le labbra, vi dico.

Lo vediamo gonfio e appesantito soltanto in una sequenza brevissima: Luhrmann rinuncia a esplorare gli aspetti carnali – e psicologici – della sua parabola discendente; quasi non la racconta.

Sembra gli interessi solo accarezzare, con mani attente e rispettose, l’Icona; senza lasciarne intaccare la bellezza dalla volgarità della vita.

Io che mi aspettavo un biopic “narrativo” e ricco nello stile di Walk the line – ma con una colata d’oro e lustrini al posto della sobrietà laconica di Johnny Cash – sono rimasta delusa. Voi, ora che sapete di che si tratta, lo amerete.

Sara Boero

Sua madre dice che è nata nel 1985, a lei sembrano passati secoli. Scrive da quando sa toccarsi la punta del naso con la lingua e poco dopo si è accorta di amare il cinema. È feticista di Tarantino almeno quanto Tarantino dei piedi. Non guardatele mai dentro la borsa, e potrete continuare a coltivare l'illusione che sia una persona pignola.
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