
Enemy: quando la mente si trasforma nella casa degli specchi
Facile giocare ai fan di Denis Villeneuve dopo la doppietta dal successo planetario di Arrival e Blade Runner: 2049. Ma se ambite a spiccare tra la folla, fare colpo sugli amici e darvi arie da grandi intenditori dovete puntare a qualcosa di meno recente e meno noto. Qualcosa come Enemy, per esempio. Filmone, questo, che oltre ai meriti già citati, può vantare come musa ispiratrice nientemeno che José Saramago, piazzare un cameo di qualche secondo di Isabella Rossellini e infilarla a caratteri cubitali nei titoli di coda e, last but not least, presentarci quel balsamo per gli occhi che è Jake Gyllenhaal in versione duplicata.
Siamo nel 2013: Denis Villeneuve è già un nome di spicco nei festival e tra la critica, ma non è ancora così noto al grande pubblico. E quali migliori armi per conquistare gli schermi di mezzo mondo degli occhioni blu del già citato Jake, e di un thrillerone con qualche velleità psicologica? Accorrete donne, è arrivato Enemy.
Adam Bell è un professore di storia in quel di Toronto, dall’esistenza piatta, monotona e un filino depressa, nonostante la presenza della bellissima fidanzata Mary (Mélanie Laurent), con cui tra l’altro le cose non sono propriamente idilliache; ogni giorno scorre uguale all’altro, finché un collega, incuriosito dai suoi lineamenti e nel disperato tentativo di intavolare una conversazione, gli consiglia di vedere un film. Ebbene, in quel film, in un ruolo risicatissimo, compare un attore identico a lui. Ma identico sul serio. Un po’ per curiosità, un po’ per dare una scossa alla sua vita, un po’ perché, diciamocelo, non è del tutto registrato, Adam decide di scoprire chi è il suo doppio: che si rivela essere Anthony St. Claire, attore da quattro soldi, decisamente meno sensibile e sposato con Helen (Sarah Gadon), da cui aspetta un figlio. Indovinate un po’, da quel momento le cose si complicano: i nostri Jake si rincorrono, a metà fra il terrorizzato e l’iroso, si spiano, si scambiano le vite. Con conseguenze tutt’altro che piacevoli.
Enemy è intricato, onirico, inquietante: Denis Villeneuve è in forma come non mai, e Jake Gyllenhaal è da manuale – teatrale, quasi. In un Canada che per architetture e alienazione anticipa la Los Angeles del 2049 ormai nota a tutti, gli uomini sembrano ridotti a un esercito di solitudini, incapaci di trovare soddisfazione nel loro lavoro, nei loro cari, nelle loro vite. Una copia carbone di se stessi, non importa quanto più scura o offuscata, diventa così un’ancora di salvezza, e se il prezzo da pagare è essere trascinati negli abissi con lei, è un rischio che vale la pena correre.
Le donne, pragmatiche e intimorite, diventano spettatrici impotenti, consapevoli del dramma che si sta consumando davanti ai loro occhi ma non abbastanza forti da frenarlo. Jake Gyllenhaal gigioneggia e si diverte a giocare al Dottor Jekyll e Mister Hyde ritirando fuori le espressioni ambigue dell’adolescente di Donnie Darko. Sullo sfondo, i parti della mente di Adam, spesso pelosi e a otto zampe.
Nemici, ma anche alleati, in un modo confuso e malato che resta ignoto anche a loro: perché in fondo, i due protagonisti di Enemy smaniano per tuffarsi nello stesso, identico tunnel. Quello in cui vorrete immergervi anche voi dopo le prime, cupissime note iniziali, e che vi farà venire voglia di calarvi tutta la filmografia di Villeneuve in una sola sera.