
Essi vivono, o il Comunismo in un’ora e mezza
Essi vivono, ovvero quando Carpenter decise di sputare in faccia al mondo
Televisione e biciclette
Siamo nel 1988, alla presidenza degli Stati Uniti c’è Ronald Reagan, che insieme all’amicona Margaret Thatcher sta mostrando al mondo cosa voglia dire “edonismo consumistico”. Non parliamo per formule, ma cerchiamo di ricordare cosa sono stati quei secondi anni Ottanta: al cinema era un putiferio di Schwarzenegger, Van Damme e Stallone, la televisione una ridda caleidoscopica di pubblicità ed MTV che pompava forte nei cervelli dei giovani dell’epoca. Dovunque, nelle strade, in mezzo alle scarpe Nike e ai capelli cotonati rimbalzava il grido ossessivo di “Consumare! Consumare! Consumare!”.
Gli anni Ottanta al cinema hanno avuto due facce – tanto per fare paragoni tagliati con l’accetta – facilmente assimilabili a due distinti oggetti: da una parte c’è la bicicletta, la bicicletta che è libertà, innocenza, la bicicletta che è autenticità dei giovani come i ragazzi di E.T., la bicicletta dei Perdenti di IT, la bicicletta di Stranger Things, tanto per arrivare ai giorni nostri; dall’altra c’è la televisione, la televisione vista come strumento di controllo delle masse, di tiepida coperta che nasconde la verità, di ipnotica bugia che distoglie dalla realtà.
Diciamocelo: non abbiamo dovuto aspettare Carpenter per sentir parlar male della televisione al cinema. Andate a vedere Tempi Moderni (1936) di Chaplin e l’uso che viene fatto dei teleschermi: la tv è lo strumento che i potenti sfruttano per tenere a freno gli inferiori, pensiamo a 1984, a Requiem for a dream, dove l’inganno e la devastazione della madre di Jared Leto passano attraverso il tubo catodico.
Carpenter ha pensato semplicemente di dire basta, di sputare in faccia a un mondo devastato, crudele e superficiale nel quale non riusciva più a riconoscersi. Carpenter ha girato Essi vivono.
A volte quando guardo la tv mi dimentico la mia identità e mi sento improvvisamente l’eroina di una serie o la conduttrice di uno spettacolo. Guardo le mie foto sui giornali mentre scendo da una limousine. L’unica cosa che conta è diventare famosa. La gente mi guarda e mi adora! Io non invecchio mai, sono diventata immortale!
Metropolis
Un operaio (Roddy Piper) viaggia per un’America in piena crisi economica alla ricerca di un lavoro. Dopo aver trovato un mezzo impiego come manovale mangia e alloggia in una piccola comune in periferia, vicino a una chiesa dove – si accorge presto – c’è uno strano viavai notturno.
Qual è il segreto?
Il mondo è controllato da una misteriosa razza di alieni che schiavizza l’umanità con l’inganno dato dal benessere, dal lusso e dal consumismo. A contrastarli c’è un piccolo gruppo di ribelli che agisce in gran segreto per far sì che tutti vedano la manifesta schiavitù a cui sono sottoposti, fabbricando speciali occhiali che svelano i messaggi subliminali ai quali siamo perennemente esposti.
Iniziamo col dire che il coup de théâtre col quale Carpenter ci mostra in soggettiva quello che Piper vede quando indossa gli occhiali è puro genio: utilizzando l’espediente del bianco e nero differenzia il falso (rappresentato con colori sgargianti, come le sue pubblicità) dal vero (spoglio, bianconero, senz’anima). Grazie alle speciali lenti il nostro protagonista riesce a distinguere gli uomini veri (poveri, oppressi, non soggetti alle leggi del consumismo) dagli “scheletri”, ovvero gli alieni invasori travestiti da yuppie (tipicamente Eighties) o donnette ingioiellate che parlano solo di quale salone di bellezza cotoni meglio i capelli.
Tramite la doppia visione Carpenter costruisce una grandiosa citazione a quel Metropolis che, già nel 1927, Fritz Lang aveva costruito sapientemente, ponendo uno dei pilastri fondamentali del cinema fantascientifico-distopico.
La nostra natura umana si è lasciata sopraffare dalle istituzioni esistenti, crediamo di essere ricchi e invece siamo precipitati nell’abisso dell’aridità e della miseria, privandoci di ogni aspirazione espressione e valore umano. […] Si sono impadroniti della Terra e ci manovreranno indisturbati finché non li scopriremo e quando ci avranno annientati useranno la melma della nostra materia per concimare i loro giardini.
Il teatro della crudeltà
Dopo Il signore del male (1987) – floppone da paura – Carpenter decide quindi di non vendersi per fare il successo che l’avrebbe risollevato, ma continua sulla sua strada di dissidente duro e puro, sbattendo in faccia allo spettatore la sua visione di una realtà marcia, definitivamente imputridita dall’egoismo e dalla mercificazione di tutto. La televisione (che in Essi vivono mostra quasi solamente pubblicità di cosmetici, oppure telegiornali in cui si raccontano falsità) ha vinto su tutto e tutti e l’unica speranza risiede proprio in quella classe operaia ancora sana e moralmente integra, che però non riesce a rendersi conto delle catene che la legano. Una classe spinta a lotte fratricide, come cani che lottano per un pezzo di carne gettata da un padrone avido e crudele.
La metafora dell’occhiale, e quindi della vista, è centrale per tutto ciò che Carpenter vuole trasmettere in un film che è quanto di più politico ci sia. Essi vivono è un vero e proprio manifesto che vive di una forza allegorica che erompe da ogni inquadratura, ogni battuta e ogni sottinteso. Un vero e proprio sputo in faccia a una contemporaneità della quale siamo figli e dalla quale – purtroppo – sembriamo non esserci affatto allontanati.
Così come Antonin Artaud (teorizzatore del teatro della crudeltà) Carpenter decide di colpire lo spettatore con tutta la violenza di cui è capace, cercando – così come gli occhiali – di svegliarlo, di restituirgli la capacità di vedere il grandioso inganno che lo sta rendendo più simile a una macchina che a un essere umano.
Il baratro
In Essi vivono tutto quanto viene asservito alla restituzione di un messaggio onnipresente, martellante e ossessivo, che inquieta perché è palesemente rivolto a chi guarda. Carpenter non ha pietà per lo spettatore, anzi, gli punta il dito contro, lo accusa di essere in qualche modo colpevole della bruttura che corre rapida sullo schermo. Rapida, sì, perché in un’ora e mezza il regista dice quello che deve dire, racconta la sua storia tragica, mascherata da fantascienza distopica e riuscendo – come solo i grandi sanno fare – a intessere un racconto usando il genere come incubatore per messaggi più che d’attualità.
E quale genere più che la fantascienza è stato in grado di alzare dei grandissimi diti medi al mondo?
Carpenter lo sa, e riesce a intrattenere anche lo spettatore che magari non coglie tutto il baratro di tragedia che sta dietro alle lenti di quegli occhiali. Quegli stessi occhiali che Carpenter vorrebbe mettere sul naso di coloro che si limitano a obbedire, dormire, consumare, vivere la vita addormentati, mentre loro invece vivono.
Fratello, la vita è una gran puttana ed è lì in agguato.
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