Film

Fahrenheit 11/9: l’analisi di Michael Moore su Trump e sugli USA convince a metà

No, non è un errore di battitura. Il film di cui parliamo oggi si chiama proprio Fahrenheit 11/9 ed è uscito ben dodici anni dopo il quasi omonimo Fahrenheit 9/11; lì Michael Moore ci parlava degli immediati postumi dell’undici settembre, qui di quello che è successo dopo l’undici sì, ma di novembre, e del 2016, ovvero di quando l’uomo proprietario di svariati palazzi, televisioni, industrie, e che en passant è pure riuscito a comparire in Sex & The City e in Mamma, ho riperso l’aereo è diventato, contro ogni pronostico, il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Sono passati ormai due anni – come vola il tempo quando ci si diverte, eh? – e il caro Michael ha ben pensato di fare un punto della situazione e dire la sua al riguardo, con l’ormai familiare tono a metà tra lo scanzonato, l’accusatorio e il vagamente complottista.


L’esordio di Fahrenheit 11/9 è in pieno stile Michael Moore: immagini della notte dello spoglio dei voti, fan della Clinton che piangono prima di gioia, poi di orrore, e un impacciatissimo Trump che tiene il comizio vittorioso senza crederci più di tanto. Come è potuto succedere? Beh, se sei Donald Trump e scopri che Gwen Stefani guadagna più di te con le apparizioni televisive, si può immaginare che non la prenda benissimo e che in un accesso di narcisismo ti lanci nella regina delle supercazzole – la candidatura alla presidenza del paese. È un po’ meno immaginabile che quello stesso paese preferisca un tycoon irascibile, arancione, noto più per le frodi fiscali che per i meriti politici a un candidato preparato, competente, istruito.


O forse no, suggerisce Moore: non se il candidato in questione si chiama Hillary Clinton, fa rima con establishment, sembra preoccuparsi più degli interessi di Wall Street che di quelli del popolo ed è pure intimamente antipatica. Nulla di nuovo finora, o almeno non per noi italiani, che a queste cose ormai è dal 1994 che siamo abituati; ma per la sedicente integerrima, progressista e innovativa America, l’elezione di uno degli uomini più reazionari del globo ha dell’incredibile. Il problema di Fahrenheit 11/9 però è che per arrivare a questa analisi bisogna pazientare una mezz’ora abbondante: la prima parte del film infatti altro non è che una carrellata su quanto Donald sia brutto, sporco e cattivo. Che per carità, ci potrebbe pure stare se fosse fatta in modo approfondito; ma Moore, forse per amore del sensazionalismo, forse perché se avesse fatto un’inchiesta decente Fahrenheit 11/9 sarebbe durato cinque ore anziché un paio, si limita a lanciare qualche illazione e a fare un sapiente collage di immagini. Ecco allora Trump che guarda lascivo prima le concorrenti di Miss America, poi la stessa figlia Ivanka; epperò si intuisce che sia un porco, ma senza prove concrete c’è poco da fare. Caro Michael, mi sa che pure su questo il Bel Paese ti bagna il naso.

Nel frattempo intermezzi su Flint, cittadina del Michigan che in seguito alla privatizzazione degli acquedotti si è trovata a fronteggiare un’epidemia di intossicazione da piombo: politica corrotta, malasanità, impoverimento generale. Drammatico, certo, ma considerando che il caso è scoppiato durante l’amministrazione Obama, poco c’entra con il biondo miliardario. Semmai, sembra dirci il regista, è stato proprio l’understatement del primo nell’affrontare il problema a gettare le basi per una generale sfiducia nei confronti del Partito Democratico. Solamente che, anche in questo caso, devono passare parecchi minuti prima di arrivarci.


Tuttavia, se riuscite a raggiungere indenni la prima oretta di Fahrenheit 11/9 verrete ricompensati: finalmente, si inizia a riflettere sul perché Trump abbia vinto le elezioni. E, finalmente, qualcuno punta apertamente il dito contro i vertici del partito dell’asinello, la Clinton in primis: Bernie Sanders piaceva, e parecchio, a donne, giovani, immigrati e non, e persino ad Emily Ratajkowski; una vittoria certa, in pratica. Ma, udite udite, osava parlare di precariato, rivendicazioni salariali, sanità pubblica: che roba, contessa. Meglio convincerlo a ritirarsi, e mettere al suo posto una che aveva come priorità il parere di Goldman Sachs. Moore a un certo punto inserisce un estratto di un dibattito televisivo che da solo vale il film: un giovane di belle speranze fa notare a Nancy Pelosi che la maggior parte dei suoi coetanei si dichiara contraria al capitalismo. Risposta di lei, lapidaria: “But we ARE capitalists.” Nello stesso momento, Trump da qualche parte stava dichiarando che la globalizzazione sregolata era uno sbaglio, che i soldi dovevano rientrare entro i patri confini per garantire a tutti un migliore stile di vita, e che in questo modo l’America sarebbe tornata a essere great again. Poco importa che tutte queste promesse a distanza di due anni siano rimaste tali; voi, in quel momento, con uno stipendio sotto la soglia di povertà e i sedicenti politici di sinistra preoccupati più dal #metoo che dai diritti dei lavoratori, chi avreste votato?


La sfilata di politici imparruccati, attaccati ai loro privilegi e annoiati da questo popolo che proprio non si rassegna a essere trattato come una pezza da piedi prosegue, mentre nelle scuole i ragazzini si sparano con la stessa frequenza con cui vengono interrogati: proprio i sopravvissuti, pare dirci Moore, possono essere la speranza per il paese. Pacifisti, preoccupati dai diritti degli ultimi, favorevoli alla sanità pubblica, contrari al liberismo sfrenato: i giovani sembrano essere la cosa più di sinistra che l’America abbia conosciuto dagli Anni Cinquanta a oggi. I giovani, e gli insegnanti, preparatissimi, pazienti e incapaci di potersi permettere un’assicurazione sanitaria decente. Voci inascoltate dalla vecchia guardia del Partito Democratico, ma che qualche giorno fa hanno permesso l’ascesa al Congresso di donne come Ilhan Omar, prima musulmana della storia americana a sedere nei posti importanti, e Alexandria Ocasio Cortez, ventinovenne del Bronx che pare darà del filo da torcere a Trump. Ah, indovinate? Per tutta la durata della campagna i big del partito hanno cercato di metterle all’angolo.

Insomma, se decidete di vedere Fahrenheit 11/9 siate preparati: non si parlerà più di tanto dei demeriti di Trump, né ci saranno suggerimenti su come affrontare il 2020. Piuttosto, avrete uno spaccato spietato del risveglio dal sogno americano. E ringrazierete di essere nati nel caro, Vecchio Mondo.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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