
Fahrenheit 9/11: ricordare il passato per comprendere il presente
La gente ha paura.
Siamo in guerra.
Nessuno è al sicuro.
Sono tutti uguali.
Siamo in guerra.
Da anni ormai siamo quotidianamente bombardati da frasi del genere. Frasi che non fanno altro che seminare il panico, la violenza, l’intolleranza e, soprattutto, l’ignoranza. I talk show sono pieni di sedicenti pensatori che credono di avere capito tutto del problema del terrorismo, del Medio-oriente, della Siria e di tutte le porcate che hanno dominato la politica estera degli ultimi trent’anni.
Rifiuti umani che hanno instillato nella gente la convinzione che lo spazio compreso fra la Turchia e l’India sia popolato unicamente da terroristi che vogliono farci saltare in aria perché gli stiamo sul cazzo così, per partito preso.
Peccato che non basti vomitare quattro boiate sul Corano per comprendere davvero le origini storiche e sociali alla base del problema del terrorismo. Per parlare di una questione così problematica bisogna fare una cosa che alla maggior parte degli italiani riesce maledettamente difficile: informarsi.
Ed informarsi vuol dire solo una cosa: tornare indietro. Portare le lancette dell’orologio alle 8.43 dell’11 settembre 2001, ora di New York. L’istante in cui tutto ha avuto inizio. L’istante in cui il mondo è cambiato per sempre.
Ma il viaggio non può certo terminare in quel momento. Bisogna tornare ancora indietro di settimane, mesi, anni. La via della verità è lunga ed impervia, e percorrerla è quasi sempre impossibile. Ma io credo che un uomo vero, per definirsi tale, abbia il dovere morale di provarci.
Come fai però ad informarti in un Paese dove a gente tipo la Sallusti e la Santanché si da ancora il diritto di parola in prima serata?
Beh, grazie a Dio sul pianeta c’è ancora gente come Michael Moore.
Non lo conoscete? Madonna se siete dai cani. Massì dai, è questo simpatico cicciopanza qua.
Il signor Michael Moore è uno di quei bravi americani che hanno il brutto hobby di scovare e divulgare le porcate che gli U.S.A. combinano in giro per il globo. Il signor Michael Moore, dichiaratamente democratico, è anche un documentarista della madonna (Premio Oscar 2003 eh, mica robetta). E come poteva un documentarista democratico non trovare niente di interessante da dire sull’11 settembre e sull’amministrazione Bush?
Ecco quindi che nel 2004 vede la luce Fahrenheit 9/11, ad oggi il documentario più importante di questo secolo: 222 milioni di dollari d’incasso al botteghino, mezzo miliardo di introiti totali, Palma d’oro al Festival di Cannes (con giuria presieduta da un estasiato Quentin Tarantino), un sacco di bestemmie fatte tirare agli uomini più potenti del pianeta.
Che all’epoca erano il buon vecchio George W. Bush e la sua combriccola di amichetti di merende.
Eh sì, perché è proprio l’amministrazione Bush il nemico numero 1 di Michael Moore. Il regista inizia il suo racconto partendo dal principio di tutto: anno 2000, Bush v.s. Gore, probabilmente uno dei più grandi sliding doors della storia dell’umanità. Bush diventa Presidente grazie agli amici di papà e al sostegno di familiari piazzati nei posti giusti, ed ecco che il mondo assiste alla nascita della peggiore amministrazione della storia americana.
Moore si concentra inizialmente sui mesi immediatamente precedenti agli attentati dell’9/11, presentandoci Bush semplicemente come un idiota. Un incapace assoluto catapultato non si sa come sulla poltrona più potente del pianeta, un uomo che passa la metà del suo tempo in vacanza a giocare a golf e ad andare a pesca mentre il suo Paese ha bisogno di lui.
Ma Moore non si limita certo solo a questo. Che per far apparire Bush come un’idiota bastano tipo 3 minuti. Anzi, 3.57.
Insomma, fino a qua si può anche sorridere.
Il problema è che poi ad un certo punto non si sorride più. Perché ci si accorge che sotto quella faccia tanto simpatica si nasconde in realtà una persona totalmente priva di principi etici e morali, i cui unici interessi sono quelli relativi ai guadagni della sua famiglia. Ed è proprio questo l’obiettivo principale che si prefissa Michael Moore: smascherare gli scheletri nell’armadio della famiglia Bush.
E, con il suo stile ironico e pungente, Moore ci porta dritti nel cuore di quell’armadio. Un armadio fatto di rapporti strettissimi con la famiglia Bin Laden e con la famiglia reale dell’Arabia Saudita. Un armadio che contiene i miliardi che i sauditi hanno investito nelle aziende della famiglia Bush. Un armadio che contiene i miliardi che quelle stesse aziende hanno guadagnato dalla crescita sfrenata della produzione di armi e di materiale bellico dall’inizio della guerra.
Attraverso l’analisi di testimonianze dirette e di documenti ufficiali, Moore unisce i puntini di un disegno mostruoso che ha portato gli Stati Uniti ad invadere due paesi sovrani come l’Afganhistan e l’Iraq senza alcun tipo di motivazioni che non fossero dettate dal Dio Denaro. Due guerre che sono costate la vita a migliaia di soldati e, udite udite, a più di un milione di civili.
Ve lo ripeto. Più di un milione di civili. Innocenti che avevano come unica colpa quella di essere nati dal lato sbagliato del mondo.
Poi però noi occidentali siamo quelli buoni eh. Quelli che esportano la democrazia e insegnano al resto del mondo come si vive civilmente secondo gli insegnamenti del dio buono e giusto.
Ecco perché un film del genere è così importante da vedere, soprattutto oggi. Perché rappresenta quella base culturale minima che tutti dovrebbero avere. Perché quando scopri che l’ISIS si è formato proprio in Iraq a causa di quella guerra criminale, e precisamente dalla dissoluzione dell’esercito di Saddam ordinata da Washington, che ha improvvisamente gettato in mezzo alla strada 400mila militari iracheni senza più né stipendio né pensione, beh, la tesi del “ci attaccano solo perché gli stiamo sul cazzo” comincia un tantino a scricchiolare.
Ma questo non è il passaggio più impressionante di Fahrenheit 9/11. Perché la seconda metà del suo documentario Moore la dedica ai giovani militari mandati a morire in Medio Oriente per una causa falsa. Giovani appena maggiorenni reclutati nelle zone più povere e arretrate d’America, quelle zone dove l’unica alternativa all’esercito sono la disoccupazione, la fame o la criminalità.
Non è un caso che, ci dice Moore, solo uno dei 535 parlamentari del Congresso degli Stati Uniti d’America ha un figlio arruolatosi nell’esercito.
Perché la guerra è quella cosa che in cui i giovani combattono, i civili muoiono e i potenti che l’hanno voluta contano i soldi.
E che, male che vada, chiedono scusa dopo qualche decennio. Vero Tony Blair?
Ciò che mi sgomenta di Fahrenheit 9/11 non è però tanto ciò che racconta e ciò che mostra esplicitamente. C’è qualcosa di più sottile in gioco, un qualcosa che mi disturba molto di più di tutto il resto: che sia tutto così evidente.
Che basterebbe aprire gli occhi, che ogni tanto la collettività si fermasse per un solo, maledetto istante, e si ponesse le domande giuste al momento giusto. Mai nella storia dell’umanità le informazioni sono state tanto alla portata del cittadino comune come in questo periodo. Eppure non succede mai niente. Le peggiori porcate succedono quotidianamente ad un palmo dal nostro naso, e nessuno sembra accorgersene.
Fino a quando le bombe non esplodono ad un tiro di fionda da casa nostra, ovviamente.
Ciò che mi disturba di più quando guardo Fahrenheit 9/11 è il senso di impotenza che mi si infrange addosso.
Tuttavia siamo qua, e abbiamo il dovere verso noi stessi di combattere per esigere il maggior numero possibile di risposte. Se non altro per poter dare una risposta sincera ai nostri nipoti quando un giorno, fra molti anni da oggi, ci chiederanno come sia stato possibile che tutti questi morti ci siano scorsi fra le mani, senza che nessuno riuscisse a comprenderne davvero il motivo.
Guardare Fahrenheit 9/11 non è solo un mero passatempo, ma un modo per urlare al cielo la nostra libertà intellettuale.
Per rivendicare la nostra intelligenza.
E anche, in parte, per poter chiedere scusa.