
Favolacce, una storia nera come la realtà
Favolacce era uno dei film più attesi della primavera 2020, un miraggio nel deserto per i nostri cinema.
Questo prima che le cose andassero come tutti sappiamo. Se per molti film rimandati non ho sofferto più di qualche minuto non è stato lo stesso per il film dei fratelli D’Innocenzo. Pur non conoscendoli da vicino (La terra dell’abbastanza è ancora nella mia lista di film da vedere) avevo la sensazione che potesse essere qualcosa di grosso.
Le voci che arrivavano da Berlino, d’altronde, andavano in una sola direzione: quella dell’elogio unanime all’opera seconda dei due fratelli romani. Tra l’altro vincendo l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura nonostante anche un anno fa a vincere furono gli italiani Giovannesi, Saviano e Braucci con La paranza dei bambini. I motivi erano due: o la concorrenza era inesistente, oppure Favolacce si meritava davvero l’aspettativa che gli stava crescendo attorno.
All’annuncio dell’uscita ufficiale in video on demand non ho potuto che gioire e godermi il secondo e ultimo trailer che mi ha lasciato una grande curiosità. Da un lato era palpabile l’atmosfera curatissima che permeava le immagini, dall’altro non capivo ancora bene a che cosa sarei andato in contro.
MA SIAMO ANCORA IN ITALIA?
La prima domanda che mi viene cominciando a guardare il film è questa! – domanda retorica se ve lo state chiedendo – L’ambientazione è fisicamente italianissima ma la regia mette subito in chiaro che la parola d’ordine è q-u-a-l-i-t-à (per dirla alla René Ferretti). L’introduzione di un bravissimo Max Tortora, che ricorda molto quelle sorrentiniane di Toni Servillo con un pizzico di premesse alla Fargo, non fa altro che diminuire i miei punti di riferimento.
Eppure sì, siamo proprio in Italia, seduti con la nostra famiglia a gustarci l’ennesimo dettagliatissimo servizio di cronaca nera al quale non possiamo davvero rinunciare. Tanto queste cose succedono sempre e solo agli altri. Il prologo si conclude con la presentazione del nutrito gruppo di personaggi e famiglie che popolano un minuscolo sobborgo della periferia romana. Un estratto della mediocrità borghese fatta di quotidianità, luoghi comuni, invidia, rassegnazione, gelosia, arroganza e materialismo estremo.
I protagonisti della storia sono tanto i genitori quanto i figli, i primi inadatti al loro ruolo e impegnati a covare rancore verso il prossimo, i secondi solo apparentemente innocenti e liberi di vivere una vita spensierata. Nonostante questo tetro dipinto iniziale è sconvolgente come la discesa nelle profondità più oscure dell’animo umano sia solo all’inizio.
È PUR SEMPRE UNA FAVOLA(CCIA)
Lo abbiamo studiato tutti a scuola, tra le elementari e le medie, ma alzi la mano chi ha la risposta pronta alla domanda: cos’è una favola? In termini specifici intendo. La favola è un racconto fantastico-didascalico dove agiscono animali umanizzati, scrive Chiara Frugoni nel 1995 sull’Enciclopedia dell’Arte Medievale. Sfido nel riconoscere una coerenza sconcertante tra le parole della storica e le immagini che passando davanti a noi sullo schermo. I personaggi di Favolacce sono animali dalle fattezze umane a tutti gli effetti. Bestie che rincorrono desideri primordiali ma sono al tempo stesso inebetite dalla loro condizione umana.
Ma come, una favola non dovrebbe essere un racconto edificante, con una morale? Sì, se non fosse che il titolo del film è Favolacce e non Favole. Sul Dizionario Treccani favolaccia è giustamente segnalato come peggiorativo di favola. Ma cosa ci stanno dicendo i fratelli D’Innocenzo? Nel 1845, a Napoli, Vincenzo De Ritis scrive Favolaccia: Racconto mal concepito e di evidente fallacia, ecco, questa è la risposta che mi sono dato.
L’intenzione dei registi è esattamente quella di disorientare lo spettatore all’entrata e cazzo se ci riescono! Ripeto, non ho ancora visto La terra dell’abbastanza ma in questo film Fabio e Damiano D’Innocenzo dimostrano di avere idee chiare e palle quadrate per riuscire a metterle su pellicola. Oltre ad una dose di talento e tecnica invidiabili dietro alla macchina da presa.
Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata.
UN DIPINTO IPERREALISTA DEL NOSTRO DEGRADO
Favolacce è un racconto mal concepito e di evidente fallacia perché è una favola senza morale, dove i protagonisti non riescono a dare nessun insegnamento. Quello che importa ai registi è mettere in scena la messinscena stessa della vita. Bruno e Pietro (Elio Germano e Max Malatesta) sono i due padri di famiglia, buoni vicini che si odiano a vicenda. Le mogli (Barbara Chichiarelli e Cristina Pellegrino) non sono molto diverse. I bambini sono tanti e tutti plagiati da un ambiente familiare opprimente, a livello fisico o psicologico. Solo la famiglia di Amelio e Geremia (Gabriel Montesi e Justin Korovkin) vive (forse) al di fuori di queste dinamiche ma è tutto fuorché considerabile normale
Dal punto di vista recitativo sono tutti perfetti e credibili, in particolar modo i piccoli, perché riescono a trasmettere angoscia malessere anche in intere sequenze dove la parola è sottofondo di primi piani strettissimi e fissi sui volti delle persone. Cupi e tesi come la colonna sonora, estratta dall’opera di un compositore dimenticato degli anni ’70, Egisto Macchi. Non penso di aver visto, negli ultimi anni, un film italiano con un livello tecnico così alto come questo. Forse Loro e Il primo re, ovvero due mega-produzioni che comunque non mi hanno lasciato lo stesso segno.
Per non parlare poi della componente architettonica che si manifesta in maniera forte e chiara. Non siamo ai livelli di Parasite per il semplice fatto che non c’è dicotomia tra i protagonisti. C’è solo il finto bello, i colori pastello che rallegrano una società depressa, case che vorrebbero distinguersi ma non ci riescono, luoghi di abbandono, sogni infranti di crescite economiche impossibili. Il tutto racchiuso in uno spazio minuscolo e opprimente, una Dogville tridimensionale.
LA MORALE DI UNA FAVOLA SENZA MORALE
So che in molti alla fine della visione di Favolacce si chiederanno qual è il senso del film. Ecco, semplice, è la domanda sbagliata. Quella giusta potrebbe essere, semmai, cosa possiamo imparare da questo film. Perché i registi si impegnano così tanto per ricordarci che non è una storia vera? E perché così tanti alla fine del film si chiederanno comunque se è una storia vera?
Siamo arrivati al punto, con giusta ragione, di ritenere fatti come quelli raccontati in questo film come verosimili, dimenticandoci di riconoscere noi stessi come artefici e protagonisti di questi fatti. Siamo noi quelli che mentre guardano il telegiornale compiacendosi delle disgrazie altrui preghiamo perché continuino a rimanere tali. Siamo noi che costruiamo famiglie senza esserne in grado di darle il valore che meritano. Siamo noi che abbiamo perso la capacità di comunicare con il prossimo, sia esso un familiare o un estraneo.
Vedere Favolacce fa male perché è una storia falsa fatta di migliaia di piccole storie vere. E per questo dovreste vederlo, anche se fa male.