Film

Fear Street e il tentativo di aggiornare il manuale dello slasher

La trilogia di Fear Street, uscita settimanalmente nel mese di luglio su Netflix, si è sobbarcata l’arduo compito di portare delle tematiche mature e attuali nel genere horror, in particolare nello slasher. Lo fa tra luci e ombre, in mezzo a ingenuità dovute all’inesperienza e al target di riferimento, ma anche regalando momenti di ottimo cinema e riuscendo infine a stilare un “moderno manuale” dello slasher. O almeno così sembra.

CI INOLTREREMO IN STORIE DI POSSESSIONI E STREGHE, MA LO FAREMO CON SPOILER. BENVENUTI

Eredità e oneri

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Per portare avanti un discorso su una tradizione – in questo caso un genere cinematografico – è essenziale il dialogo col passato. È il solito pippotto del nessuno si inventa niente, tutti copiano. I geni rubano, insomma.

Leigh Janiak, regista della trilogia e di un a me sconosciuto Honeymoon, individua a livello estetico 3 modelli di riferimento, uno per film.

Il modello individuato per Fear Street Parte 1: 1994 è Scream, ed è palese. Vi basti guardare l’immagine qua sopra. Anche il contesto in cui il film è ambientato, gli anni ’90, rimandano al capolavoro di Wes Craven, che tra l’altro è uscito solo due anni dopo rispetto al 1994 della prima parte di Fear Street.

Janiak ha cosparso la prima parte della sua trilogia di riferimenti e citazioni più o meno nascosti al caposaldo del genere slasher, ma in particolare ne riprende in maniera quasi calligrafica la struttura narrativa.

A titolo esemplificativo guardatevi il prologo di Fear Street Parte 1. Una scena isolata dal contesto di quello che sarà poi il film, che presenta l’assassino – tra l’altro vestito quasi allo stesso modo di quello di Scream, sostituendo alla maschera da fantasma-urlo di Munch quella di un teschio – e che uccide in maniera sadica e spietata la protagonista della scena. In particolare la scena dell’inseguimento e dell’uccisione dialoga direttamente col film di Craven, talvolta cercando anche di mimarne le scelte registiche.

La regista, di tanto in tanto, cerca di inserire anche l'(auto)ironia e l’umorismo metacinematografico che ha reso Scream un cult inevitabile, scelta che però si rivela un po’ legnosa e di certo non brillante quanto nel film di Craven, che resta abbastanza irraggiungibile.

Qui sorge però il primo elemento di stacco e, se volete, d’innovazione rispetto alla tradizione. L’assassino ci viene rivelato immediatamente, ed è un certo Ryan Torres. Chi ha visto la trilogia sa che le cose non stanno proprio così, ma questo è un altro elemento di interesse e ne parleremo dopo.

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Fear Street Parte 2: 1978 è invece uno slasher oserei dire purissimo, con tanto di final girl e che prende come modello Venerdì 13 e il suo Jason Voorhees.

Anche l’ambientazione all’interno di un campeggio ricalca il contesto del cult del 1980 e, ancora una volta, a livello temporale il film si colloca due anni prima dell’uscita del film di riferimento, nel 1978.

La seconda parte della trilogia sostituisce al tipico clima anni ’90 con le sue luci al neon un’estetica più cupa e scura, utilizzando il buio e l’oscurità come elementi fondamentali di questo film, dialogando ancora con Venerdì 13. Se quella di Fear Street Parte 1 era un’estetica anni ’90, quella di Parte 2 è esattamente un’estetica fine anni ’70, periodo in cui sorsero tanti grandi capolavori horror. Anche le scelte musicali contribuiscono splendidamente a ricreare il contesto.

In ogni caso oltre ai primari modelli di riferimento i primi due capitoli della trilogia disseminano citazioni e riferimenti ad altre pellicole horror. È impossibile, per esempio, non notare degli evidenti ammiccamenti a ShiningNon aprite quella portaHalloween e a suo modo anche a Nightmare.

La pecca, che forse rende il secondo capitolo un po’ più sottotono rispetto al primo, è la sostanziale mancanza di inventiva e innovazione, se non in un punto. Qui una vera final girl non c’è. L’archetipo narrativo viene però mantenuto grazie a un interessante trovata di sceneggiatura e quindi Ziggy Berman, che era morta, rimane in vita.

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Il terzo capitolo non ha un univoco modello di riferimento, probabilmente perché cerca di inventarsene uno proprio. Certo, l’estetica richiama i film di possessione e i film sulle streghe in costume, in particolar modo sembra evidente il rimando a The Witch.

Il che ha molto senso, perché in questo modo la regista sta facendo due cose. Sta dialogando con un moderno modello dell’horror – ambientato e collocato temporalmente praticamente alla stessa altezza cronologica – e sta fondando un’estetica propria, personale.

Su questo fronte, e dal punto di vista della ritematizzazione degli archetipi narrativi, Fear Street Parte 3: 1666 è il miglior capitolo della trilogia, in quanto imposta una riflessione sull’attualità attraverso il dispositivo dell’orrore, per raccontare l’orrore vero.

Una nuova vecchia storia

janiak

Quella che nei primi due capitoli poteva sembrare una classica storia di possessione e assassinii, nel terzo capitolo si rivela essere una parabola sull’emancipazione, una dura critica alla discriminazione e una riflessione sul potere in quanto espressione del male.

Parte 1 Parte 2 impostano il discorso. In particolare Parte 1 tematizza l’elemento della relazione omosessuale tra Deena e Sam, per una volta, per fortuna, senza vuote retoriche. Il discorso sull’omosessualità non è sbandierato come un effimero inno all’inclusività ammantato di falso ultra-progressismo. Al contrario viene affrontato nelle sue componenti più intime e profonde, per poi, nel terzo capitolo, trasformarlo in discorso politico che realmente punta all’inclusione.

Parte 2 mostra in appendice e silenziosamente il cancro del potere che impedisce alla verità di venire a galla, riconducendo la colpevolezza a quella classe sociale che gode di minor consenso pubblico. In altre parole: alla minoranza, che sia etnica, culturale, religiosa, sessuale o quant’altro.

Fear Street Parte 3 ci mostra l’origine di un male che ha radici secolari e che genera discriminazioni e abusi all’interno di un microcosmo sociale che diventa specchio della società tutta. Da un lato ci sono le credenze e il bigottismo popolare, dall’altro la realtà. E in questo senso il XVII secolo fornisce un’ambientazione efficace.

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In Fear Street Parte 3 la colpa dell’avvento del male viene attribuita a Sarah Fier, che si dichiara colpevole di aver stipulato un patto col demonio per salvare la vita della ragazza che ama, ingiustamente condannata come strega per la “colpa” di aver intrattenuto un rapporto omosessuale. Che per il 1600 era anche normale, tutto sommato.

Ma la stoccata di Fear Street arriva nel momento in cui lo spettatore, prima dell’ingiusta impiccagione di Sarah Fier, viene a conoscenza del vero colpevole, Solomon Goode. È lui che ha invocato il demonio e portato devastazione nella contea di Unione, che da quel momento verrà divisa in Shadyside e Sunnyvale. Ed è lui che accusa Sarah Fier, adirato per il fatto che la ragazza non ricambiasse il suo amore.

È qui perciò che Fear Street squarcia il velo di Maya e svela la cruda faccia del reale. Il male ancestrale, che per secoli venne imputato a una stregoneria mai avvenuta e attribuita attraverso la discriminazione, infine viene identificato con la corruzione del potere e il suo ottenimento attraverso l’abuso.

La famiglia Goode, per secoli e secoli, ha rinnovato un patto col diavolo che, attraverso la possessione, sfruttava persone innocenti mascherandosi dietro la credenza popolare secondo cui la maledizione era dovuta alla strega Sarah Fier. Ironicamente questo crea un simpatico gioco di parole in lingua originale: “Goode is bad/evil”.

Capite che il discorso è molto stratificato. Leigh Janiak utilizza molto bene modelli e archetipi narrativi per impostare una riflessione profondamente attuale sul male, che, come nei film, ha radici secolari, getta le sue fondamenta nel potere e viene spesso confuso con l’innocenza e il bene.

A ritroso nel tempo

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È chiaro dunque che i 3 film non possono essere presi in esame separatamente, per avendo ciascuno le sue peculiarità sia estetiche che narrative: il discorso viene a esprimersi analizzando i 3 capitoli come fossero un unico film.

In questo senso il fatto che la storia si svolga a ritroso nel tempo, passando dal 1994 al 1978 fino al 1666, per poi tornare al 1994 chiudendo il cerchio, apre a interessanti considerazioni narrative.

Infatti noi spettatori, assistendo prima a ciò che è accaduto dopo, nel momento in cui procediamo a ritroso nel tempo restiamo forniti di una conoscenza maggiore degli eventi rispetto ai personaggi. Rientriamo perfettamente nel modello hitchcockiano della suspense.

Ma non solo. La tensione è amplificata dal fatto che, nonostante la nostra maggiore conoscenza, il riavvolgimento del nastro temporale è fondamentale per aggiungere i tasselli narrativi che completano il quadro e danno compiutezza al discorso che la regista voleva svolgere. Quindi da un lato sappiamo e quasi possiamo prevedere le azioni dei personaggi; dall’altro siamo spaesati alla ricerca di ulteriori elementi che ci chiariscano gli eventi a cui abbiamo già assistito. Praticamente un’anamnesi narrativa.

Direi che da questo punto di vista si viene a costruire un sottile ma raffinatissimo discorso metalinguistico unito al più esplicito citazionismo.

Sangue e morte: tra pregi e difetti

solomon

Non bisogna comunque mai dimenticare che Fear Street parla il linguaggio del teen movie e quindi si espone ad alcuni stereotipi tipici di quel linguaggio. Uno su tutti: il cringe. Nella maggior parte dei casi i tentativi di far ridere per scaricare la tensione escono un po’ goffi.

Dall’altra parte, però, c’è da sottolineare che, per fortuna, il cringe non proviene quasi mai dai personaggi. E questo è un elemento considerevole, perché è chiara la volontà della Janiak di aggiornare i ruoli dei personaggi, svecchiandoli, aggiornandoli e liberandoli dalle gabbie del tipo. Certo, anche qui abbiamo il nerd, la cheerleader, il nero, la secchiona perfettina, la ragazza ribelle, l’idiota, il pompato pieno di sé e chi più ne ha più ne metta. Ma la cosa davvero notevole è che questi tipi sono appunto solo involucri da riempire di vita.

Tutti i personaggi principali hanno una profondità psicologica rilevante e per questo motivo gli esiti delle loro scelte non sono prevedibili, perché non si conformano a uno stereotipo.

Faccio due esempi per chiarire, uno positivo, l’altro negativo.

Il personaggio di colore che vediamo nel 1994 è fin troppo stereotipato. Fa tutte le esatte cose che ti aspetteresti da un personaggio di colore in un film horror: è sconclusionato, sopra le righe, fa ridere per la sua ingenuità, è superficialotto e banalotto e, guarda caso, è anche un fuorilegge. Su questo aspetto però, per tutta la serie di stratificazioni che abbiamo visto prima, il fatto che sia un fuorilegge si trasforma in un punto di forza, perché il vero cattivo è proprio lo sceriffo. E un altro elemento su cui si sfugge alla stereotipizzazione è la morte. Perché dai, lo sappiamo tutti che il nero muore per primo negli horror. Bè, qui no.

Solomon Goode, invece, fin quando non si rivela per ciò che è, ovvero un bastardo infame, sembra rientrare esattamente nel tipo narrativo dell’aiutante/mentore. È l’unico che ascolta Sarah Fier, la aiuta, le da supporto, la consiglia, le dice che per lei ci sarà per sempre. Quando poi lei non gliela vuole dare, allora il merda si rivela. E lì il tipo narrativo crolla, rompendo lo stereotipo.

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Le note più dolenti riguardano la morte e la gestione delle scene che la riguardano, soprattutto dal punto di vista della tensione.

Tutto sommato Fear Street mette in scena molto sangue, che a livello stilistico è utilizzato molto bene e funzionalmente. La fa da padrone in questo senso il secondo capitolo, che, da manuale dello slasher, infila una morte dietro l’altra inventandosi soluzioni estetiche di volta in volta più gustose. E anche il prologo del primo film in tal senso non è da meno, con quel ralenti enfatico che serve anche a rivelare il volto dell’assassino.

Anche la scelta di mostrare o far intuire dettagli macabri e raccapriccianti, tipo quella cosa pulsante che viene evocata dalla famiglia Goode stipulando di volta in volta il patto col demonio o tipo l’uccisione di 4 giovanissimi, è lodevole.

Il problema sta tutto nel come si arriva alla morte; o meglio, nel come non ci si arriva.

È troppo evidente la distinzione tra morti certe e morti impossibili. In particolare i protagonisti sono dotati del potere dell’immortalità. Parte 1 ci uccide brutalmente davanti alla faccia due personaggi principali e quindi faceva credere che i protagonisti potessero unirsi al club Game of Thrones. Ma invece no.

Quei due vengono uccisi perché sostanzialmente non servivano più alla trama. Da lì in poi ogni volta che i protagonisti sono in pericolo o sono nel bel mezzo di uno scontro non si temerà più per la loro incolumità. Anche la morte di Sarah Fier, che è una protagonista, non ha rilevanza in tal senso, in quanto si sapeva già che era morta.

parte 1

Quindi da un lato abbiamo delle ottime soluzioni estetiche per quanto riguarda il mostrare la morte. Dall’altro, però, abbiamo delle scelte poco funzionali nella gestione degli scontri, nelle possibilità che questi aprono e nello scioglimento dei nodi narrativi.

Troppo spesso si ricorre al tipico schema: stiamo vincendo-qualcosa va storto-sembra che tutto andrà a puttane-sul più bello un personaggio trova la chiave per vincere-si salvano tutti. Ahimè è uno schema troppo prevedibile e che letteralmente infetta molti horror di oggi.

Va bene l’inventiva estetica, ma per renderla ancor più efficace è necessario legarla ad altrettanta funzionalità narrativa.

Ma, ripeto, sono tutti sintomi di ingenuità legate al film di genere e all’inesperienza registica. Non ci sono errori gravi, mettetela così.

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Quindi che dire. La trilogia di Fear Street è da vedere. Più che altro perché sicuramente ha lanciato un trend che vedremo proseguire nel futuro. Sia come esempio di stile che proprio credo, ahimè, come franchise.

Immagino sappiate che queste storie sono prese dalla saga omonima di libri di Stine. Sì, quello di Piccoli brividi. Ecco, quella saga è composta di 36 libri, quindi, per dire, di materiale da adattare ce n’è.

E vista anche la scena infra-credits, in cui si vedono due mani afferrare il libro per evocare le possessioni, direi che sentiremo ancora parlare di Fear Street.

Vi lascio qui il trailer al primo film.

Ah giusto. Occhio a una possibile contaminazione con Stranger Things: le carte in tavola ci sono tutte.

Mario Vannoni

Un paesaggio in ombra e una luce calante che getta tenebra su una figura defilata. Un poco inutile descrivere chi o cosa sono io se poi ognuno di voi mi percepirà in modo diverso, non trovate?
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