Vi risparmio il paragrafo per spiegare quanto Mario Bava sia stato fondamentale per il cinema di genere e non, italiano e non. Quindi passiamo subito al dunque: il regista sanremese è una pietra miliare della storia del cinema, ahimè ingiustamente ignorato e mal valutato in vita, ma acclamato come genio da ogni cinefilo post mortem; la sua regia e il suo lavoro nel cinema sono stati di indispensabile importanza per una buona fetta della cinematografia venuta dopo di lui e io oggi, comune plebeo, sono qui per rivolgergli un tributo pieno di amore. Ed è così che dovete leggere questo articolo: come un’ode appassionata verso un regista per il quale ogni intendente di cinema dovrebbe riservare un’inesauribile ammirazione.
Ma passiamo alle cose serie, che lo stile elevato non mi si addice.

Come ci muoviamo ordunque oggi? Questa non vuole essere una monografia su Bava e nemmeno un’analisi del suo cinema: lasciamo queste cose ai critici cinematografici, noi siamo qui per confrontarci. E con “confrontarci” intendo voi ascoltate me, io ho ragione e voi muti. Nazi-mode attivata.
Data la rilevanza che Bava ha avuto nella codificazione e nel perfezionamento di alcuni dei generi di maggiore successo a livello cinematografico, faremo un excursus, attraverso 6 film-prototipo, per cercare di capire perché egli merita tutta l’importanza, a livello popolare e non, che oggi gli viene attribuita.
Prima di continuare però voglio bussare alla tomba del maestro dell’horror e chiedergli: “ma la figa ti piaceva, nevvero? Non negare, ho notato la rilevanza del nudo nel tuo cinema. Aaaaah, quindi lo facevi per il pubblico? Beh, se lo dici tu”. Fine parentesi macabro-insensata.
La maschera del demonio e l’horror gotico

Primo genere e primo film di Bava. Innanzitutto La maschera del demonio è un capolavoro: un esordio migliore di questo Bava poteva soltanto sognarselo. Ma perché codifica l’horror gotico? Pensiamo innanzitutto alle atmosfere: molti climi cupi, scuri, che viaggiano al limite tra il vivo e il non vivo, talvolta integrandoli nello stesso contesto contribuendo ad accrescere l’alone demoniaco che pervade la pellicola. A questo si aggiungono le ambientazioni, le quali presentano castelli dalle guglie aguzze (in pieno stile gotico appunto), stanze piene di ragnatele e personaggi che se te li trovassi davanti nella vita vera non esiteresti mezzo secondo a gridare come una stupida checca invocando il nome della mamma.
La ciliegina sulla torta è offerta dalla maledizione attorno alla quale ruota tutta la trama – tipico topos del genere – e le conseguenti possessioni demoniache che introducono in un clima già tenebroso figure non morte.
La maschera del demonio è senza dubbio uno dei film più inquietanti di Bava e che rappresenta, già dal primo lavoro, un manifesto di poetica e stile ben delineato.
L’escursione nel peplum con Ercole al centro della terra

Per chi non sappia cos’è il peplum, vi lascio qui la pagina di Wikipedia che ve lo spiega. Grande la Wiki, come un vero fra, sempre presente. Qui è utile una precisazione: è vero che Ercole al centro della terra è pienamente un peplum, probabilmente il migliore mai fatto, ma è anche vero che presenta alcune caratteristiche che non sono in linea con quanto un peplum dovrebbe presentare. E questa è una massima che va sempre tenuta a mente quando si analizza un genere affrontato da Bava: se il genere non è da lui stesso codificato egli vi si approccerà mantenendo uno stile sui generis, ovvero rispettando e infrangendo le regole del genere come meglio preferisce. Per questo Mario Bava è un regista di genere ma che del genere non è schiavo.
La cosa più evidente da notare è la tipica recitazione in costume che contraddistingue questo filone insieme alle trame tratte dalla mitologia greco-romana. Abbiamo poi la presenza dell’azione, che nella maggior parte dei casi riguarda l’eroe di turno (Ercole nel caso specifico) alle prese con mostri, divinità o creature leggendarie. Ma il peplum è un genere popolare, di massa, e quindi l’azione e le parti più serie vengono alternate con sequenze ironico-comiche che allentano la tensione e regalano il sorriso allo spettatore: molto goffe queste parti in questo film.
Ma come detto sopra ciò che caratterizza Bava è l’infrazione delle regole e difatti il regista non esita neanche un momento nell’inserire atmosfere horror: una costante nella sua filmografia. E quindi mentre Ercole lotta contro i mostri Bava forgia il suo sperimentalismo cromatico e affina la sue rappresentazioni nebbiose e dense di tensione con straordinari virtuosismi ed effetti speciali da leccarsi i baffi.
N.d.A.: la commistione con altri generi non è assolutamente un abbassamento di stile, ma anzi è ciò che serve sia allo stile stesso che al genere in questione per perfezionarsi.
Il duo definitivo del giallo all’italiana: La ragazza che sapeva troppo e 6 donne per l’assassino
Qua ci divertiamo. Si può dire che i due film sono rispettivamente quello che crea e quello che codifica il genere del giallo all’italiana, l’uno in bianco e nero, l’altro a colori: sono due film che per forza di cose vanno analizzati congiuntamente.
La ragazza che sapeva troppo crea il giallo nel senso che è il primo film che conferisce al mistero da risolvere una dimensione nettamente verosimile, dimensione messa in dubbio dallo stesso Bava nel finale della pellicola. Chi ha visto sa. E ovviamente se la faccenda deve risultare verosimile è chiaro che vanno introdotti gli elementi necessari per farlo: e quindi troviamo il detective, gli indizi sparsi da raccogliere e il finale circa quasi chiarificatore.
Ma, di nuovo, Bava è un regista sui generis e inoltre il genere è ancora in costruzione, quindi ne La ragazza che sapeva troppo un vero e proprio detective non c’è e ad assolvere questo ruolo si ritrova la protagonista stessa, ma in una dimensione decisamente più straniata perché coinvolta, tant’è che Bava gioca per tutto il tempo con l’illusione sogno-realtà che non diventa mai perfettamente deducibile. Caratteristica, questa, che simboleggia precisamente la transizione a un genere compiuto che Bava stava mettendo in atto.

Transizione che viene completata con 6 donne per l’assassino, col quale il regista getta praticamente tutti i topoi che qualsiasi giallo presenterà da questo film in poi: l’assassino con l’impermeabile scuro, col volto coperto, i guanti e il cappello; le soggettive, spesso molto ravvicinate, del killer; i delitti diversificati tra loro e spesso e volentieri molto violenti e cruenti (il film fu addirittura criticato per il suo sadismo); la commistione tra thriller e horror (caretteristica, questa, anche di La ragazza che sapeva troppo). Questo è ciò che si può chiamare a pieno titolo un manifesto di genere. Un po’ come Marinetti, ma senza le automobili velocissime e la voglia di distruggere ogni cosa.
La fantascienza elegante ed economica di Terrore nello spazio
Diciamo che qui non si può parlare esattamente di codificazione di un genere, in quanto la fantascienza esisteva già prima di Mario Bava, ma siccome in Italia i prodotti fantascientifici non erano altro che la riproposizione low budget dei prodotti americani, il maestro si staglia nell’orizzonte della fantascienza italiana come un raggio di sole che vi regala il cancro alla pelle. Mi accorgo che non è una similitudine troppo azzeccata.
Sicuramente ritroviamo la componente del low budget, tant’è che qui tocchiamo probabilmente il minimo storico nella carriera di Bava per quanto riguarda i soldi a disposizione. Ma la genialità e l’intuizione del regista si fanno vedere proprio in virtù di questo fatto: seppur con 3 centesimi egli realizza quello che è probabilmente il miglior prodotto di fantascienza del periodo, prodotto che ispirerà Ridley Scott per il decisamente più fortunato Alien. Bava, ancora una volta, commistiona il genere con l’horror creando delle atmosfere talmente tese e raddensate da poter essere affettate in modo perfettamente simmetrico con un coltello. E contate che aveva a disposizione praticamente solo 2 rocce da spostare in giro per il set.
Reazione a catena e l’invenzione dello slasher

Lo so che i precisini saranno già lì a storcere il naso: “eh ma non c’è la final girl, eh ma l’assassino non è uno solo e non è un pazzo omicida, eh ma quella scena l’ha copiata da Venerdì 13“. La risposta a tutte queste bullshit è una sola: l’intrattenimento non è la sola cosa che conta. Bava non ha creato lo slasher perché voleva intrattenere il suo pubblico, lo ha creato per dipingere tutta la grettezza e la meschinità che pervade l’essere umano e che lo porta a una deriva di materialismo sfrenato e che dunque lo rende bieco e malvagio. In questo senso la formula dello slasher funziona a rigore d’arte e costituisce un mezzo per mettere in scena una serie di omicidi che hanno tutti lo stesso movente: il profitto.
Parlando più categoricamente di classificazioni di genere, in Reazione a catena troviamo appunto la serie di numerosi omicidi che avvengono a danno di un gruppo di persone, con armi da taglio e in uno spazio circoscritto, meglio se cruenti e crudeli. A ciò va aggiunta la straordinaria capacità del maestro dell’orrore nel gestire la tensione e la suspense, capacità che qui tocca le sua massime vette. Aggiungiamoci anche le scene di nudo che non fanno mai male e che non possono mancare in uno slasher (e poi diciamolo: acchiappa più persone).
Quando Cani arrabbiati anticipava di gran lunga Tarantino e il pulp

Da molti – e da me compreso – considerato il capolavoro di Bava, Cani arrabbiati è la definitiva testimonianza di quanto egli fosse un visionario e un assoluto genio del cinema. Questo film non solo è un capolavoro formale, ma inoltre anticipa di almeno 15 anni quel cinema definito “degli eccessi” che tanto piace e tanto ha avuto successo. E meno male che Tarantino lo ammette. Seppur non pensato come un pulp, Cani arrabbiati – che in questo senso è piuttosto una rivisitazione estrema del poliziottesco – presenta molte caratteristiche tipiche del genere a venire. Bava ambienta (quasi) l’intera narrazione all’interno di una macchina e la farcisce con straordinari dialoghi dal gusto parecchio sontuoso, fatto di conversazioni ridondanti, disquisizioni scollegate da ciò che si narra ma che aggiungo contenuto popolare alla pellicola, e, soprattutto, l’utilizzo di un linguaggio spesso violento.
Che poi in Cani arrabbiati tutto è violento, non c’è spazio per i buoni orizzonti e i personaggi diventano sempre più bestie da macello col progredire della pellicola, conferendo quel tono tipico del pulp, misto di eccessivo e di sensazionale: i contenuti forti sono dietro ogni angolo.
N.d.A.: pressoché l’unico film di Bava in cui non sono presenti tematiche o atmosfere horror.

Tutto questo mappazzone per ribadire ancora una volta la fondamentale importanza di Mario Bava per il cinema in senso lato: un’importanza che, spero, con questo articolo sia stata ribadita o rivalutata. Ma in fondo so di essere un illuso, perché dovreste dare credito a me che non ho scritto neanche un libro?