
Filosofia, tragedia greca e nichilismo: a Seoul non c’è Pietà
Mai Leone d’Oro fu più controverso di quello assegnato a Pietà per l’edizione 2012 del Festival del Cinema di Venezia. Kim Ki-Duk ha sconvolto pubblico e giuria con un’opera pesante, cupa, morbosa; una tragedia greca ambientata in una baraccopoli coreana.
C’è chi lo ha definito un esercizio di stile eccessivamente barocco e nemmeno troppo riuscito, chi lo ha osannato come l’ultimo capolavoro del cinema asiatico; di certo, Pietà è un pugno nello stomaco.
Kang-Do (Lee Jung-Jin) è un giovanotto al soldo di uno strozzino, uno dei tanti che popolano i quartieri più miseri delle megalopoli dell’Estremo Oriente, e il suo compito è sollecitare ai clienti il pagamento dei debiti insoluti. I suoi metodi non sono ortodossi: Kang-Do picchia, tortura, storpia le sue vittime, in modo da intascare i soldi dell’assicurazione.
Abbandonato fin dalla nascita, Kang-Do sembra non provare emozioni finché alla sua porta non bussa la madre – anzi, la Madre: una donna che dice di averlo messo al mondo, e che in virtù di questo ruolo desidera addossarsi la colpa di tutti i suoi peccati, in un doloroso percorso di redenzione.
Una Madre quindi che non si limita a una funzione individuale, ma che diviene emblema della condizione universale di tutte queste donne; una Madonna disposta a diventare sentiero per il Bene, ad essere calpestata in virtù di un fine superiore.
E tuttavia, in Kang-Do sembra non esserci traccia di pietà: il gigantesco ragazzo sottopone alle prove più terribili questa donna minuta, che stoicamente accetta in lacrime e in silenzio tutto quanto, fino ad arrivare ad uno stupro-incesto. Ma quando finalmente il ragazzo sembra accogliere questa nuova presenza, Kim Ki-Duk ci ricorda brutalmente che non tutto è come sembra: perché se Kang-Do incarna la violenza fredda e sistematica, la donna può rivelarsi Madre, sì, ma ancora più feroce e assetata di vendetta, quale che sia il prezzo.
Pietà deve buona parte della sua riuscita alla prova di Jo Min-Su, attrice che mette in scena splendidamente l’amore dolente che una madre può provare per un figlio, e alla fotografia, che ritrae come in un quadro di Caravaggio la povertà e la barbarie della metropoli asiatica. E che se possibile sulla locandina ha fatto un lavoro ancora migliore, prendendo la pietà di Michelangelo e donandole dei tratti moderni.
La sceneggiatura, a dispetto dei detrattori, ha tutta l’intensità dei drammi degli antichi, a cui unisce lo squallore dei tempi odierni. Critica sociale, analisi psicologica, filosofia e alta letteratura si fondono nella diciottesima opera del regista coreano, a cavallo fra un desiderio di espiazione sulle tracce di Dostoevskij e il nichilismo più grigio.
Se si vuole trovare un difetto in Pietà, si può ammettere che Kim Ki-Duk ha ecceduto in sicurezza sia nel trattamento brutale riservato agli attori, sia nei formalismi un po’ ridondanti di cui ha infarcito il film, non ultimo il Kyrye Eleison finale che accompagna una scena senza barlumi di speranza. Ma d’altro canto, un’opera così complessa e tragica ha bisogno di interpeti ed inquadrature altrettanto intensi, e Pietà è uno dei rarissimi casi in cui il manierismo non risulta stucchevole.