Quando la retorica fugge a gambe levate
Tre cose sono difficili da digerire in un film: la retorica, il buonismo, il piccione viaggiatore con un messaggio nel becco. Spiegoni, colonne sonore invadenti, richiami all’empatia forzati (cartelli luminosi su cui lampeggia piangi al posto di applause), i segnetti rossi su cosa è giusto o sbagliato, la sbavatura del correttore su come si deve stare al mondo. E se tutto questo si concentra in un film sugli adolescenti, è anche peggio.
Fiore (2016), di Claudio Giovannesi, non è un film così.
Ed è un peccato che tra le 6 nomination ai David di Donatello di quest’anno (tra cui Miglior film, Miglior regista, Miglior sceneggiatura originale) abbia portato a casa solo il premio a Valerio Mastandrea, nella categoria miglior attore non protagonista. Un peccato, perché, in un certo senso, Fiore può dirsi anche una sfida coraggiosa, un confronto sbocciato in una sincronia perfetta tra attori professionisti e non.
Giovannesi, infatti, ha scelto i suoi interpreti dal set della vita vera e ha studiato cosa significa concretamente vivere un’esperienza dietro le sbarre nel fior fiore degli anni. Così, sono nati loro due: Daphne (Daphne Scoccia) e Josh (Josciua Algeri), attori non professionisti che hanno regalato ai rispettivi personaggi, oltre ai loro nomi, anche le più fragili, delicate e palpabili esperienze, sublimate da un modo di stare al mondo (e davanti alla macchina da presa) in grado di coincidere in quello sguardo toccato così da vicino, l’uno con l’altro e l’uno con noi.
Fiore racconta la storia di Daphne (Daphne Scoccia, nominata miglior attrice protagonista), una ragazzina difficile (come direbbero le signore per bene), quasi sola al mondo, che ruba cellulari in stazione e scappa col fiatone sulle terrazze, dove alla fine (cioè all’inizio del film) viene beccata. Rinchiusa in un carcere minorile, senza nemmeno un lettore mp3, ha solo la sua rabbia a farle compagnia: rabbia da giovani, che sfoga nei bagni facendo a botte con le compagne, o dando fuoco alle coperte; rabbia da grandi, che sfoga nei silenzi, che fugge nei sogni.
Quasi sola al mondo perché un padre le è rimasto, ma al contrario di lei, dalla prigione ci è appena uscito, e si è rifatto una vita con la sua nuova compagna rumena, che sembra ci tenga a farlo rigare dritto. Un padre, Ascanio (Valerio Mastandrea), che non conosce la sua taglia, o non si chiede quale sia, ma si affida, persino in questo, alla compagna, che lo tiene stretto per il braccio, e che lui si ostina a portare sempre con sé, persino in quei momenti in cui Daphne vorrebbe parlare da sola con lui.
Abbracci accennati, sguardi imbarazzati, confessioni a metà. Affetto trattenuto, imprigionato nelle paure di lui, che forse teme di abbracciare, con la figlia, i suoi vecchi errori, e nelle paure di di lei, di rubarlo a un’altra, di non essere importante.
Allora, come te trovi, qua?
Mi so’ abituata. Tu, fuori?
Non me so’ abituato tanto
Dentro e fuori, non solo le sbarre, qui si parla di rapporti. Daphne vorrebbe stare dentro, immersa nel mondo, in uno stretto contatto con suo padre, che invece è fuori da tutto questo, disabituato a riordinare se stesso.
E mentre Daphne si confronta col mondo (lontano dal mondo), con gli altri, con le sue scoperte nuove e le sue delusioni vecchie, la camera si stringe su di lei, la segue da vicino, ce la fa toccare, sfiorare, e quasi ci illude di darle quello che non ha, o quello che sogna nei momenti da schifo, semplicemente un contatto umano.
Finché non incontra Josh (Josciua Algeri), in infermeria, in un rapido incrocio di occhi e ferite nascoste da sguardi e fasciature. Inizia un rapporto epistolare, un’amicizia, che si trasforma in voglia, in carne accennata, in baci rubati attraverso un’inferriata, in quella necessità di mettersi a nudo (non solo da una finestra all’altra). Un amore ostacolato dai cancelli ma anche dalle regole di un penitenziario che toglie, in questa rieducazione coatta, forse gli unici motivi per rieducarsi alla bellezza.
C’è qualcosa di speciale nell’interazione tra gli attori, nel loro modo di raccontare, guidati dall’abilità di un regista che si muove con sobrietà, con rispetto, con equilibrio.
Anche la musica è poco ingombrante, quasi assente. La poca colonna sonora (scritta dallo stesso Giovannesi e da Andrea Moscianese) non invade nulla, accompagna momenti di distensione (e non apici da scene madri), come il montage tra il primo scambio di lettere e quello in cui Daphne guarda il cielo da un finestrino. Il film è fatto di silenzi, di respiri, di aria percepibile nell’ora d’aria, che sottolinea l’isolamento/solitudine di Daphne (e in questo, magistrale il lavoro del suono in presa diretta di Angelo Bonanni, già vincitore al Miglior suono con Non essere cattivo, e quest’anno con Veloce come il vento) per rimanere indelebile in quella delicata danza tra i due innamorati sulle note di Maledetta Primavera (o stramaledetta gioventù).
Persino il sogno (sono diversi i momenti in cui si assiste ai sogni di Daphne) è girato senza discostarsi mai dall’equilibrio che consacra la regia di Giovannesi all’ideale documentaristico (Giovannesi ha diretto due documentari candidati ai Nastri D’argento, Fratelli d’Italia nel 2009 e Wolf nel 2013). Non ci sono aloni di luce, non cambia la fotografia, nessuno stacco per evidenziare quanto un sogno sia separato dal contesto della realtà. E quando i sogni non sembrano sogni, la vita segreta dei personaggi appare in tutta la loro potenza, in tutta la loro verità.
Daphne Scoccia si dimostra non solo all’altezza, è una rivelazione, con la sua bellezza quasi androgina, delicata e dura, ci consegna se stessa in tutte le sfaccettature.
E chissà che ne sarebbe stato di Josciua Algeri, se un incidente stradale non lo avesse strappato alla sua nuova occasione. Aveva più volte dichiarato di essere stato salvato da Giovannesi, perché lui in carcere c’era stato davvero e la sua vita non era per niente rose e fiori. Lavorare con il regista gli aveva fatto credere in quel riscatto che la vita ti consegna quando finalmente hai l’occasione di dimostrare qualcosa di grande (o qualcosa di tuo). Vincitore nella XXIII edizione del Festival Città di Caltanissetta, Josciua era anche un rapper e ci ha lasciati così, a soli ventun anni, come in uno di quei film in cui i finali vengono troncati da un montaggio che col buonismo, come la vita vera, non vuole averci niente a che fare.
Fiore, a mio parere, resta uno dei fiori all’occhiello delle produzioni italiane degli ultimissimi anni. Per il coraggio di distanziarsi dal modo in cui si tende, troppo spesso, a raccontare storie e drammi giovanili, semplificati attraverso un linguaggio colmo di tempeste ormonali e commozioni (cerebrali) piagnucolanti (per non parlare degli stereotipi da bullo cattivo, sfigato buono).
Giovannesi, più che sugli adolescenti, ci ha mostrato una storia fatta con e attraverso loro, che con sincerità (e onestà intellettuale) ci mostrano quel mondo incredibilmente fragile e così maledettamente fugace, ma delicato, e capace di fiorire anche su un terreno sterile, da cui fuggire via.
L’evasione dalla retorica, la fuga dal buonismo, la coercizione mancata al semplicismo e alla lacrima facile (ecco, quelle teniamole dietro le sbarre), fa di Fiore un film su una riabilitazione obbligata, quel coatto stare dentro che rieduca anche noi alla dimensione della verità, o ad un’altra forma di innocenza.