
Fyre: la realtà domanda il suo tributo
Everything was real. It looked real!
Nella prima metà del 2017 in America non si parlava d’altro che del Fyre Festival. Un promo di poco più di 90 secondi, condiviso sui social da alcune delle modelle più celebri (Kendall Jenner, Bella Hadid, Emily Ratajkowski, etc.), creò un’attesa spasmodica per quello che si prospettava essere il nuovo, lussuoso, festival evento, al pari di Coachella o Tomorrowland.
Il tutto si è concluso con una class action da centinaia di milioni di dollari nei confronti dei due organizzatori, il rapper Ja Rule e l’imprenditore Billy McFarland. Quest’ultimo sconta attualmente una pena a sei di anni di carcere emessa nelll’ottobre 2018 per frode.

Hollywood ha fiutato subito il potenziale della storia e poche settimane fa, quasi in concomitanza, Netflix e Hulu hanno rilasciato rispettivamente Fyre: The greatest party that never happened e Fyre Fraud.
Qui prendiamo in esame il documentario Netflix, non tanto perché sia stato unanimemente riconosciuto dalla critica come il migliore dei due, ma perché diretto da Chris Smith, regista di Jim & Andy e soprattutto di American Movie, di cui mi ero già occupato in passato.
Avevo individuato nella filmografia del regista un filo comune: raccontare le storie di uomini con una vocazione. Talvolta quasi ossessione. I protagonisti di Smith si immolano per la causa per cui lottano, letteralmente, facendo grossi sacrifici e finendo sempre col rischiare tutto. In Fyre, Billy McFarland proietta intorno a sé e al suo business una patinata aura di successo. È talmente calato in questo suo alter ego, e vuole così ostinatamente portare a termine il suo show, da ignorare completamente la realtà che gli sta intorno, negando l’evidenza se questa non rientra in quella che è la sua visione.
Smith indaga il rapporto tra realtà e finzione nell’era digitale e il potere sempre crescente dell’immagine artificiosa che i nuovi media ci hanno permesso di creare di noi stessi.

I social network e i nuovi media sono già da diversi anni protagonisti di un numero sempre maggiore di film. Tra le pellicole cha hanno avuto più successo, nel recente 2018 ci sono stati Eight Grade e Searching. Nel 2014 fu il turno di Unfriended, ottimo successo commerciale che ha ispirato il meno fortunato Friend Request (2016), e di cui è uscito un sequel Unfriended: Dark Web, lo scorso anno. Senza dimenticare The Social Network (2010), il dramma biografico sul fondatore di Facebook Mark Zuckerberg.
Ognuno di questi lavori ha affrontato i temi sopracitati concentrandosi su differenti sfumature. Eight Grade tratta l’ansia alimentata dai social nelle giovani generazioni, Searching l’isolazione e la fuga dalla realtà, Unfriended il fenomeno del cyberbullismo e The Social Network è una storia che mette in primo piano temi più classici come l’amicizia, la gelosia, il potere, pur mostrando la contraddizione di una rete telematica capace contemporaneamente di connettere milioni di persone distanti e creare barriere tra persone vicine.
Come già detto, Fyre si è concentrato invece sulle immagini e sulla possibilità offerta dai media attuali, in maniera gratuita, semplice e molto più diffusa rispetto solo a pochi anni fa, di costruire una realtà che sia il più gradevole possibile agli occhi del nostro pubblico e di conseguenza a noi stessi.

The more footage, the better.
McFarland conosce bene l’importanza delle immagini. Nel film vediamo come tutte le sue attività imprenditoriali fossero sempre state documentate da foto e soprattutto video. Nel tempo è riuscito a dare di sé l’immagine di un imprenditore di successo, stregando giovani così come seri professionisti, facendosi prestare enormi somme di denaro e convincendo persone a fare per lui le cose più assurde, grazie solo ed esclusivamente alla facciata che si era abilmente confezionato per sé.
Il successo di un personaggio come Billy è racchiuso in quel forte desiderio malsano di voler essere l’immagine virtuale che proiettiamo di noi stessi. Pur condannando il comportamento di Billy, alcuni dandogli del sociopatico, altri sostenendo che solo la galera può riabilitarlo, quasi tutti gli intervistati ammettono con rammarico quanto sarebbe stato bello se alla fine il progetto Fyre Festival fosse andato in porto, poiché “sarebbe stato come se Instagram avesse preso vita”, dimostrando una sorta di cecità.
Siamo talmente dentro la realtà che creiamo un’immagine di noi stessi da non vedere più cosa ci sta intorno? Questo è uno dei quesiti che rivolge il film insieme a quale sia il nostro grado di complicità.
Con Fyre il pubblico americano pregustava un film che facesse ironia su Billy McFarland e soprattutto sui tanti “figli di papà” che, potendosi permettere di acquistare un biglietto per il neo-evento d’élite, invece della musica e del lusso a loro promesso, si ritrovarono per oltre ventiquattro ore in mezzo al nulla, senza musica, senza un tetto sopra la testa e pressoché senza né cibo né acqua. Smith parte da questa base e modella un film che, seguendo da vicino l’impresa ossessiva e autodistruttiva di McFarland e soci, finisce col raccontare la nostra attualità in modo decisamente più profondo.
Quello che avrebbe potuto essere un film prepotentemente a tinte stelle e strisce, poiché tratta un argomento che ha avuto un forte seguito negli USA ma solamente accennato altrove (qui in Italia ad esempio se ne sono occupate solo riviste specializzate nel campo della musica), ha finito per diventare il film più universale del regista.
Resta da capire se in questa società descritta dal film, che viaggia a 200 all’ora, dove l’immagine superficiale sembra essere tutto, il messaggio di cui il film è portatore saprà essere duraturo o se si esaurirà con la stessa rapidità dell’ennesimo top trending hashtag.