
Get Out – Il razzismo discreto della borghesia
Quando Jordan Peele afferma che fra l’horror e la commedia non ci sono poi tutte queste gran differenze, in quanto “in entrambi i casi si tratta di saper usare i giusti tempi, saper scegliere quando svelare cosa“, sa di cosa sta parlando. Si perché Jordan Peele sarà anche il regista horror più chiacchierato del momento grazie al suo Get Out, che è riuscito ad incassare più di 200 milioni di dollari in tutto il mondo dopo esserne costati appena 4, ma è partendo dal mondo della commedia che si è costruito la sua carriera.
Dopo aver mosso i primi passi come attore danzando fra un ruolo e minore e l’altro (fra le altre cose una piccola parte in Fargo e una sessione di doppiaggio in Rick e Morty), Peele scrive la serie comedy Key & Peele, rivelandosi anche uno sceneggiatore di tutto rispetto. Tuttavia, mentre la sua carriera cresce a poco a poco, Jordan Peele probabilmente non immagina che il copione che cambierà la sua vita lo ha già scritto, ed è lo stesso che giace nel suo cassetto da diversi anni, in attesa che qualcuno ci metta il cash per trasformarlo in realtà.
È infatti durante gli anni della prima amministrazione Obama che il buon Jordan butta già la sceneggiatura di Get Out. L’idea del film la prende da un vecchio e celebre sketch di Eddie Murphy in cui il comico racconta della volta in cui andò a trovare la famiglia bianca della sua ragazza bianca, con tutto quello che ne consegue. E da quell’aneddoto Peele non estrapola solo l’ossatura del suo film, ma anche il titolo.
Il buon Jordan va talmente in fissa con questo monologo che per un certo periodo pensa addirittura di affidare il ruolo di protagonista proprio ad Eddie Murphy, ma poi gli anni passano e, quando alla fine il progetto Get Out entra in cantiere, l’idea di affidare il ruolo principale ad un attore che ne ha ormai più sessanta che cinquanta non sembra più così allettante.
L’importante comunque è che qualcuno cacci i soldi, e quel qualcuno è Jason Blum, fondatore della Blumhouse Production, casa di produzione celebre per la sua abilità nel finanziare con due lire progetti (specialmente horror) che poi incassano 200 volte tanto (fra i tanti: Insidious, Ouja, Sinister, La notte del giudizio, The Gift, Whiplash, Paranormal Activity). Il ruolo di protagonista viene affidato al bravissimo Daniel Kaluuya, diventato famoso grazie alla sua super prova nel meraviglioso secondo episodio della prima stagione di Black Mirror intitolato 15 milioni di celebrità, e il 24 febbraio il film esce negli Stati Uniti.
Ed in poco tempo esplode come un bomba atomica.
P.s. Rilassatevi, NON ci sono spoiler.
Come già accennato in precedenza, Get Out racconta la storia di una giovane coppia: lei si chiama Rose ed è bianca, lui si chiama Chris ed è nero. Per il fine settimana devono andare a trovare i genitori di lei, e una delle prime battute di Chris svela fin da subito quale sarà il vero cuore del film: “Hai detto ai tuoi che sono nero“?
Get Out e il suo incredibile successo sono infatti la prova di come, anche dopo i due mandati di Obama, il problema razziale negli Stati Uniti sia ancora tremendamente attuale, e di come, nonostante il fuoco della discriminazione si sia ormai sopito, sotto la brace le fiamme continuino a bruciare ininterrottamente. Un tema del genere è sicuramente meno percepito qui da noi (anche se Sulley Muntari avrebbe qualcosa da ridire sull’argomento), ma negli States la questione razziale è ancora un ordigno sempre pronto ad esplodere (problema affrontato brillantemente lo scorso anno anche dalla bellissima serie Il caso O.J. Simpson).
Certo, fortunatamente non sono più i tempi del Ku Klux Klan, dei bagni separati in base al colore della pelle e dei texani dal grilletto facile (oddio, quelli probabilmente ci sono ancora). Il razzismo di oggi raramente è esplicito come quello di un tempo, ma se da un lato ha perso quella sua violenza originaria, dall’altro ha assunto una forma più infida e strisciante, in grado di annidarsi anche dietro una faccia all’apparenza amichevole e priva di pregiudizi. Una faccia come quella degli Armitage, i genitori di Rose.
Get Out non vuole prendere di mira il razzismo tipico della destra xenofoba, ma quello dell’altolocata borghesia di sinistra. Antagonisti della storia sono infatti ricchi democratici che si fanno vanto della purezza dei loro ideali, ma che allo stesso tempo si nascondono dietro una maschera di ipocrisia che si frantuma davanti alla malcelata inadeguatezza che dimostrano quando si trovano davanti persone di colore, dimostrandosi non molto diversi dai razzisti che dicono di disprezzare. Una sorta di xenofobia discreta, sepolta nel profondo che esce allo scoperto fra una battuta qua e un luogo comune là, e che per certi versi è ostile tanto quanto quella esplicita, quasi come se i razzisti di ieri si fossero dovuti adattare ai tempi per sopravvivere ad un mondo ormai avviato lungo la strada della tolleranza (si spera).
Ecco quindi che Chris non sa più cosa pensare: il padre di Rose sostiene che Obama sia stato il miglior Presidente che abbia mai visto e che lo avrebbe voluto per un terzo mandato, sembra dimostrare ammirazione per Jesse Owens, ma poi ha in casa una domestica e un giardiniere di colore, che si comportano in maniera tremendamente servile, “come se non si fossero evoluti“. Insomma, non è che la tenuta degli Armitage sia proprio Candyland, ma su questa aleggia un forte odore di marcio di cui non si riesce a trovare la provenienza.
Mano a mano che la storia prosegue, lo spettatore si ritrova a provare lo stesso spaesamento di Chris, attento a notare ogni espressione, ogni movimento e ogni rumore per cercare di capire da dove provenga quella sensazione di disagio, di sporco e di sbagliato che sembrano emanare le parole e i comportamento dei familiari di Rose.
Ed è su questa linea che si sviluppa tutta la prima parte di di Get Out. Peele si rifà a classici del passato come La fabbrica delle mogli, Indovina chi viene a cena? e La notte dei morti viventi, ci butta dentro una spruzzatina di atmosfere alla Eyes Wide Shut e il resto lo fanno gli attori, i dialoghi, le musiche, le inquadrature. Tutti ingredienti che vanno a creare un mosaico enigmatico per la cui piena comprensione è necessario stare attenti ai dettagli e agli indizi che il regista è abile a spargere lungo il sentiero, e che rendono una seconda visione del film ancora più gustosa.
L’opera di Peele si rileva atipica anche per via dei suoi inaspettati quanto riusciti momenti di comicità, totalmente affidati al personaggio di Rod. Un’umorismo tipico delle commedie trash americane che sulla carta potrebbe apparire totalmente fuori luogo per le tematiche trattate, ma che riesce ad entrare senza fastidio nell’ingranaggio del film.
Insomma, Get Out sceglie un sentiero difficile da percorrere e che potrebbe portare ad un’ora di sbadigli e russate se non fosse per il tocco di Peele e lo straordinario talento di Kaluuya, un ragazzo che non mi stupirei di vedere tutto elegante ad una delle prossime edizioni della Notte degli Oscar. E se quindi è il thriller a farla da padrona nella prima metà, è nella seconda parte che Peele arriva a scatenare la sua vena horror, mettendo in scena un finale violento e feroce, anche se forse tira il freno un attimo prima di diventare veramente grandioso.
Dopo la sorpresa It Follows, questo Get Out è la riprova di quanto sia ancora necessario che l’horror torni a ricordarsi come il suo ruolo non sia solo quello di terrorizzare e sconvolgere, ma anche quello di criticare e analizzare la società che ci circonda. Da La notte dei morti viventi a Zombi passando per Essi vivono, la storia del Cinema dell’orrore è costellata da grandi film metaforici la cui missione, più che spaventare, era quella di trasmettere un messaggio ben preciso, che fosse contro il razzismo, il consumismo o l’omologazione di massa. La speranza è che film di questo spirito, di cui si era persa traccia per lungo tempo, possano tornare a reclamare un ruolo di spicco nel panorama horror dei prossimi anni.
Il successo di Get Out è la prova vivente che questa speranza è ben fondata. Il film di Peele non sarà un capolavoro, ma rimane un’opera audace, coraggiosa e potente. E soprattutto regala alla scena un nuovo regista di cui aspettare con ansia il prossimo lavoro.
Io sono già in attesa.
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