
Gli Aristogatti, ovvero l’importanza delle risate
Correva l’anno 1996 (all’incirca: stavo a stento in piedi, e sono nata nel ’94) quando mio padre mi filmava a mezzo centimetro dal televisore, con l’espressione adorante di chi non si scollerebbe nemmeno se crollasse la casa, mentre guardavo gli Aristogatti. Neppure la richiesta di ballare, sulle note della celeberrima Alleluia! Tutti jazzisti (che ovviamente è sempre bello chiamare Tutti quanti voglion fare il jazz) smuoveva il mio sguardo: mi limitavo a tenere il tempo sulle ginocchia, mantenendo gli occhi fissi, come ipnotizzata, sullo schermo.
Come inizio, dovrebbe rendere l’idea di quanto io non sia normale (perché assicuro che quanto a follia, dopo 20 anni, non è cambiato molto). Penso però che dia anche l’idea di quanto io ami questo classico Disney classe 1970, e di conseguenza, quanto sia difficile per me parlarne, perché (come sempre, d’altronde) tanto più una cosa mi piace quanto più tendo a non sapere, o a non saper spiegare, il perché.
La storia mi auguro sia nota a tutti: nella “Parigi bene”, una anziana e ricca donna di nome Adelaide decide di redigere il proprio testamento, chiamando presso la propria magione un notaio (George Hautecourt, uno dei migliori personaggi comparsa di sempre: assolutamente indimenticabile nelle sue movenze, nelle sue canzoncine, in ogni cosa che fa nei 10 minuti in cui lo vediamo sullo schermo) e di lasciare tutto in eredità ai propri gatti: si tratta di Duchessa e dei suoi figli, Minou, Matisse e Bizet. Ciò non rende proprio felice il maggiordomo, Edgar, il quale decide di avvelenare i gatti per sbarazzarsene; tuttavia, per una serie di avvenimenti, i quattro animali si ritroveranno “semplicemente” dispersi nelle paludi fuori città, e dovranno affrontare l’ardua impresa di tornare a casa.
La cosa riuscirà grazie ad una serie di avventure che legherà i gatti a nuovi amici piuttosto atipici (perché casa Disney non rinuncia mai a dimostrarci quanto sia bello andare oltre i pregiudizi), tutti personaggi che hanno regalato al mondo dell’animazione delle perle indimenticabili: partiamo da Groviera, il topo amico dei gattini che vive nella villa di Adelaide, proseguendo con l’immancabile Romeo, il randagio giramondo dall’accento romano che, invaghitosi di Duchessa, decide di accompagnare gli Aristogatti nel loro viaggio verso casa fino a scoprirsi ormai parte della loro famiglia (ah, cara Disney dei lieti fini cuoricini amore e pace…).
Passiamo poi per Scantecat e la sua banda, un gruppo di randagi musicisti dei luoghi più disparati (qui le menzioni d’onore vanno al tastierista cinese e il suo Lagazzi che lima e al contrabbassista russo per il Corraggio Tavarish!), senza dimenticare Guendalina e Adelina Bla Bla, due oche che salveranno Romeo dall’annegamento per regalarci poi l’incontro con il loro zio Reginaldo, l’oca ubriaca che, al pari del notaio George, nessuno di noi potrà mai dimenticare (e che ognuno di noi ha cercato, o è riuscito involontariamente, di imitare non appena si è ritrovato abbastanza ubriaco). Concludiamo poi, ultimi ma non per importanza, con Lafayette e Napoleone, i due cani randagi che sarebbero fuori dalla vicenda ma che per un motivo o per un altro la alterano completamente (fino a rompere la quarta parete, chiudendo, letteralmente, il film) che con la loro gag dell’inseguimento del maggiordomo Edgar penso rappresentino il 95 per cento delle mie risate compulsive.
Escludendo quindi le morali disneyane (che facciamo un po’ finta di disprezzare, ma ci tirano sempre su) cosa mi porta a parlarvi di questo cartone, a recitarlo a memoria battuta per battuta e a proporlo in visione a chiunque abbia a che fare con me e un televisore? Ci ho pensato per un po’, e credo che la risposta si intuisca nella descrizione della trama qui sopra: le risate.
Ricordo che da piccola la scelta dei cartoni animati con mia sorella era davvero complessa, perché fosse stato per lei avremmo guardato solo principesse (su tutte, La Bella Addormentata), e ricordo come io non fossi in grado di sopportare una vicenda così inquadrata; ovviamente, avendo visto gli Aristogatti la prima volta quando ero ancora (?) un tappetto trotterellante, non so dire con certezza cosa mi sia frullato per la testa, ma so cosa vi è rimasto dopo: un film di animazione dove la vicenda centrale non solo non era umana, ma non era riferita ad una principessa che viveva le più assurde vicissitudini onde poter finalmente trovare il vero amore. No, qui si parlava di gatti, di una famiglia, e poi di amici, di musica, di paura, persino un po’ di illusioni e fiducia malriposta: e d’amore, certo, ma solo in ultimissima istanza e in modo comunque caricaturale.
La componente più importante degli Aristogatti rimanevano sempre le risate: in maniera diegetica, perché nessuno degli animaletti protagonisti perde il sorriso di fronte a niente, e anche per noi spettatori, a cui ogni scena regala un sorriso, che sia effettivamente ilare o che sia semplicemente – e forse la bellezza di questo cartone animato sta proprio qui – perché attraverso la sua visione ci ricordiamo che le cose importanti sono poche e semplici, e sono quelle di cui il film tratta: come detto, gli amici, la musica, ma anche un posto in cui tornare. La morale implicita, alla fine, sembra essere che se si sa ridere, di tutto, anche di noi stessi, si è capaci di realizzare le imprese più assurde, e l’amore – quello di coppia – passa davvero in secondo piano. Quando in famiglia mi chiedono, dunque, per quale motivo continui tutt’oggi a guardare piuttosto di frequente gli Aristogatti, la mia risposta è, e spero sarà sempre, “Perché ce n’è bisogno.”
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