È chiaro e arcinoto a chiunque conosca un minimo di storia del cinema l’importanza imprescindibile che un regista come Godard riveste nella storia della cinematografia mondiale. Quasi tutti, però, pensano che quest’aura di leggenda si sviluppi ed esaurisca nella corrente della Nouvelle vague – di cui Godard è sostanzialmente il fondatore, assieme a Truffaut. Specularmente molti ignorano che la rilevanza del regista franco-svizzero si estende ben oltre la distruzione delle regole cinematografiche, arrivando ad influenzare tutto quanto il cinema moderno.
Ciò che potrebbe suonare ancor più strano è il sentirsi dire che Godard ha influenzato – e di brutto – la fantascienza. Ma vi dirò di più: il regista ha, se non inventato, di certo gettato i prodromi del cyberpunk.

La Nouvelle vague è stata una corrente che, di volta in volta, si interessava a diversi generi cinematografici, per rivisitarli, reimpastarli, rivoluzionarli. La metà degli anni ’60 furono un periodo in cui i registi del movimento erano particolarmente interessati al noir. Ovviamente nel cinema americano all’epoca si era già entrati nella fase neo-noir (vedi ad esempio Ascensore per il patibolo di Louis Malle del 1957) e anche Godard aveva in un certo senso già toccato il genere con pellicole come Fino all’ultimo respiro o Le petit soldat.
Ma, venendo dal futuro in modo simile a Kanye West, il regista ebbe l’intuizione definitiva. E così nel 1965 girò Agente Lemmy Caution: missione Alphaville.
Un paio di considerazioni preliminari…
Il personaggio di Lemmy Caution è ripreso da quello ideato dallo scrittore Peter Cheyney ed era già stato sottoposto a vari adattamenti cinematografici, tutti con protagonista Eddie Costantine, che ovviamente è protagonista anche del film di Godard.
Le storie su Lemmy Caution erano tipicamente noir, come i film che ne sono stati tratti; il nostro Gian-Luca, invece, decise di andare oltre.
Il regista imbastisce una trama che riprende molti degli stilemi del noir classico, ma li ribalta, trasformando Lemmy Caution in una parodia di se stesso. Così facendo Godard elimina il tipico conflitto morale dell’antieroe noir e restituisce un personaggio che non ha nessun interesse nell’essere un eroe: lui spara, senza esitazioni. In questo senso Eddie Costantine è perfetto: freddo, cinico, duro, di volto e di fatto.
Ma arriviamo alla ciccia…
L’intuizione fondamentale di Godard fu quella di ambientare la sua storia nel futuro, rendendola a tutti gli effetti un film di fantascienza. Alphaville è una città controllata da un supercomputer dittatore che ha sottomesso tutti gli abitanti alle leggi della razionalità e della logica. Un po’ come i neopositivisti. Mi stanno bussando alla porta i gesuiti per fustigarmi.
Fermiamoci un attimo. A parte il palese richiamo al Grande Fratello di Orwell – a cui praticamente tutte le distopie fantascientifiche si ispirano (Brazil, per dirne una) -, mi sembra abbastanza evidente che Kubrick abbia come minimo preso ispirazione da Alpha 60 (il supercomputer) nella creazione del suo HAL 9000 in Odissea nello spazio.
Le persone che vivono ad Alphaville sono in questo modo depredate di tutto ciò che solitamente caratterizza un individuo: carattere, passioni, inclinazioni, volontà e possibilità di provare emozioni e così via. Ciò è possibile grazie al controllo distopico-dittatoriale che Alpha 60 esercita, il che mi pare aver plausibilmente influenzato Matrix nella sua riflessione sull’individuo limitato nelle sue possibilità per essere tenuto sotto controllo.
Inoltre Godard si ispira anche a Metropolis di Fritz Lang (capostipite della fantascienza cinematografica) nell’ambientazione – con questi enormi palazzoni pieni di vetrate – e nel fatto che una volta manomesso il supercomputer la città cada nel caos, come appunto accade anche in Metropolis. Ma i riferimenti al film di Lang si sprecano: la ripresa di una certa tendenza fotografica espressionista (che comunque è dovuta in primo luogo all’ambientazione noir), la donna-robot/automa, ma in particolare Lang ha ispirato il tema centrale del film, ovvero l’amore. Infatti lo slogan ricorrente di Metropolis è proprio “il mediatore fra il cervello e le mani dev’essere il cuore”, mentre il film di Godard si chiude sulle parole “ti amo”.
L’amore ci porta al punto saliente di quest’articolo. Lemmy Caution nel corso della pellicola si innamora del personaggio interpretato da Anna Karina, la donna-robot. Quale film vi fa venire in mente? So che lo sapete, ma se non lo sapete ve lo dico: Blade Runner.
Tornando al noir…
State pronti all’affermazione forte: Blade Runner è quello che Agente Lemmy Caution conteneva in potenza. Ora vado a spiegarmi, prima di diventare il vostro vespasiano personale.
Blade Runner è probabilmente il film neo-noir più conosciuto, spalleggiato timidamente forse soltanto da Sin City. Come abbiamo visto in precedenza, però, Godard il neo-noir quasi lo inventa o comunque contribuisce in modo decisivo a strutturarne le regole cinematografiche.
Tuttavia il grande merito di Ridley Scott – tra le altre cose – è stato quello di inventare l’estetica cyberpunk. Ma così come, a mio modesto parere, non sarebbe mai esistito Alien senza Terrore nello spazio, così penso non sarebbe mai esistito Blade Runner senza Lemmy Caution. Non sto cercando di dire che Ridley Scott è bravo solo a copiare, anzi: quello che voglio intendere è che il regista americano è un ottimo fagocitatore di istanze culturali che ha saputo rielaborare in ottica personale e autoriale, contribuendo alla definizione di un’estetica.
Detto ciò resta impossibile non accorgersi delle analogie che contraddistinguono le due opere. In primis l’ambientazione neo-noir/distopica/futuristica, poi il protagonista sbirro, il rapporto d’amore tra Harrison Ford e la replicante, ma anche l’estetica stessa, con quest’illuminazione contrastata, gli enormi palazzoni e questi grossi impianti di controllo della popolazione. Cruciale però è il fatto che le due pellicole trattano temi molto simili, seppur declinandoli in maniere diverse: dall’alienazione dell’individuo allo sguardo sulla modernità, passando per la riflessione sulla coscienza e arrivando infine al ruolo dell’amore nella risoluzione dei rapporti.
Sia Blade Runner che Lemmy Caution, per di più, sintetizzano il loro messaggio in un intervento di un personaggio, il replicante Roy in Blade Runner e Natascha von Braun nel film di Godard, entrambi creature che dapprima si pensano sprovviste di coscienza ma che alla fine del film, proprio con le loro finali battute di dialogo e attraverso l’amore, recuperano la consapevolezza di essere individui.
Giusto per concludere e non essere frainteso. Questa non voleva essere una gara tra Scott e Godard, ma tanto più un modo per mostrare quanto senza il regista della Nouvelle vague non esiste cinema moderno. Il fatto di riprendere autori o tendenze del passato non è un qualcosa che svaluta l’opera che ne deriva: tutti lo fanno, è impossibile non farlo ed è l’unico modo in cui l’arte può progredire e avanzare; un’arte autoreferenziale e chiusa in se stessa esaurisce la sua portata innovativa troppo presto per incidere sulla società. E no, non è questo che significa l‘art pour l’art.
Non ci sarebbe mai stato un Godard senza il cinema classico americano, senza Hitchcock e senza Rossellini, così come non ci sarebbe mai stato Star Wars senza Kurosawa e ancora nessun Kurosawa senza Shakespeare e Dostoevskij. Insomma, avete capito.
Specularmente è impossibile non riconoscere il valore di Ridley Scott nella ridefinizione della fantascienza moderna e nella creazione del cyberpunk a livello estetico, senza contarne gli innumerevoli altri meriti.
In sintesi, trattate il vostro cervello come fosse un rizoma.