Film

Godzilla (2014): quando la regia ti salva un film

Classificazione: 3 su 5.

Noi ridiamo e scherziamo, ma questa settimana approda nelle sale Godzilla 2: King of the Monsters. Per chi non lo sapesse, si tratta del terzo capitolo del cosiddetto “Monsterverse”, l’universo condiviso dedicato ai mostri giganti iniziato appunto con il primo Godzilla e proseguito con Kong: Skull Island. Di quest’ultimo, se ricordate, avevo già parlato ai tempi, mentre ancora non mi era capitata l’occasione di recensire il capostipite. Così ho pensato: “Perché non farlo ora che è arrivato il sequel?”. Originale, vero?

Godzilla
“Stavate parlando di me?”

Uscito al cinema nel 2014 (certo che King of the Monsters si è fatto attendere!), questo Godzilla è il secondo remake (reboot?) americano del mitico kaiju movie giapponese degli anni ’50. Prima di esso c’era stata la versione del 1998 firmata Roland Emmerich, un flop sia di critica che di pubblico. Che però (qui lo dico e qui lo nego) rimane un mio guilty pleasure personale.

È vero, è un’americanata stupidissima, con attori pessimi e un’ironia imbarazzante, ma io l’ho sempre trovato divertente e a tratti suggestivo (poi vabbé, la parte del Madison Square Garden mi mette sempre un’ansia pazzesca). Ciò non toglie che con il film giapponese non c’entrasse una mazza, già a partire dal design del mostro.

Godzilla
I veri kaiju hanno le curve!

Al secondo tentativo era chiaro fin da subito che la fedeltà all’originale doveva essere considerata un’assoluta priorità. E così è stato. Se il Godzilla di Emmerich era un lucertolone anoressico a metà strada tra un dinosauro di Jurassic Park e un’iguana, quello del Monsterverse torna ad essere la creatura enorme e tozza degli albori, con tanto di iconico ruggito e raggio atomico che le esce dalla bocca. In tale rispettosità risiede il maggior pregio della pellicola, da condividere con l’ottimo lavoro svolto dal regista Gareth Edwards.

Gareth Edwards
Rara immagine di Gareth Edwards che gioca con i suoi pupazzetti.

Sicuramente ora lo conoscete grazie anche a Rogue One: A Star Wars Story, ma all’epoca il buon Edwards era un perfetto sconosciuto. Alle sue spalle un solo lungometraggio, Monsters, un monster movie (ovviamente) costato due spicci e in cui i mostri compaiono sì e no cinque minuti in tutto. Detto così può sembrare brutto, invece Edwards aveva già dimostrato in quest’opera la sua bravura, lavorando sapientemente sulla suspense e l’attesa più che sull’esibizione delle creature.

Lo stesso atteggiamento si ritrova in Godzilla. Seguendo la lezione de Lo squalo di Spielberg, il giovane cineasta tiene il pubblico sulle spine ritardando il più possibile l’apparizione dei mostri, e di quello protagonista in particolare. Ci vuole circa un’ora prima che Godzilla faccia la sua comparsa e anche a quel punto ne vengono mostrati inizialmente pochi dettagli. Quando poi il kaiju finalmente si svela, tutta la tensione accumulata in precedenza esplode, trasformando la scena in un grande evento.

Godzilla sott'acqua
Citare “Lo squalo”: lo stai facendo bene!

Questo gusto per la trepidazione da parte di Edwards va di pari passo con il suo talento visivo. Supportato dal direttore della fotografia Seamus McGarvey, il regista compone immagini di rara bellezza ed espressività, che sfiorano l’opera d’arte. Una delle scene più affascinanti in tal senso è la spettacolare sequenza dell’HALO Jump, resa ancora più evocativa dalla scelta del Requiem di György Ligeti (già utilizzato da Kubrick in 2001: Odissea nello spazio) come sottofondo musicale.

HALO Jump
Immagini che non si vedono in tutti i blockbuster!

Edwards inoltre predilige i campi lunghi, riducendo le figure umane a minuscoli puntini ai margini dello spazio scenico. Allo stesso tempo evita quasi sempre di inquadrare Godzilla nella sua interezza, rendendo visibile solo una parte del suo corpo e lasciando il resto fuori campo. Tutto ciò è studiato per restituire al meglio l’idea delle colossali dimensioni del kaiju, dipingendolo per quello che è: un’irrefrenabile forza della Natura dinnanzi alla quale gli esseri umani paiono scomparire.

Di fatto l’eccellente regia di Edwards compensa una sceneggiatura che purtroppo tanto eccelsa non è. Lo script a cura di David Callaham e Max Borenstein (ma ci hanno lavorato, non accreditati, anche David S. Goyer, Frank Darabont, Drew Pearce e Tony Gilroy) non è esente da scivoloni e scelte narrative discutibili. A cominciare dalla decisione di relegare il mostro che dà il titolo al film a un ruolo quasi di secondo piano.

MUTO
Vedete questi due? Hanno più spazio del mostro protagonista!

La storia ha inizio nel momento in cui un’enorme creatura antica fugge dal sottosuolo e distrugge una centrale nucleare in Giappone (palese riferimento al disastro di Fukushima), solo per entrare subito dopo in uno stato di apparente inattività. Anni più tardi si risveglia e inizia a devastare ogni cosa si trovi davanti. Uno penserebbe che si tratti di Godzilla, invece si scopre che il mostro in questione è un essere insettiforme completamente inedito denominato MUTO (acronimo per Massive Unidentified Terrestrial Organism).

Da qui in poi la trama continuerà a concentrarsi più che altro su questo mostro, sulla sua controparte femminile intenzionata ad accoppiarsi con lui e sui vani tentativi dell’esercito statunitense di fermare entrambi. Da parte sua Godzilla, su due ore di film, comparirà in totale neanche venti minuti e fungerà praticamente da deus ex machina, arrivando giusto per dare la caccia ai MUTO (sue prede naturali) e salvare la situazione.

Godzilla vs MUTO
“Così impari a rubarmi la scena!”

Le cose non migliorano sul versante dei personaggi umani. Il Ford Brody interpretato da Aaron Taylor-Johnson, malgrado sia il protagonista, è sostanzialmente inutile ai fini della trama. Il suo percorso narrativo consiste semplicemente nel trovarsi sempre in mezzo al casino, riuscendo ogni volta a cavarsela per un soffio mentre tutti quelli che gli stanno attorno muoiono (tant’è che viene da pensare che forse sia lui a portare sfiga). Altrettanto inutile è il personaggio della moglie (Elizabeth Olsen), buona solo a prendere decisioni una peggiore dell’altra (tipo abbandonare il proprio figlio su un autobus).

Sprecatissimo poi Ken Watanabe, che nei panni di uno scienziato di MONARCH (lo SHIELD del Monsterverse) non fa altro che lanciare sguardi intensi e snocciolare frasi fatte (“Che combattano!”). L’unico personaggio un minimo interessante è il padre di Brody, interpretato dal grandissimo Bryan “Walter White” Cranston. E indovinate un po’? Muore dopo soli 40 minuti!

Bryan Cranston e Aaron Taylor-Johnson
“Say my name!”

Per quanto sia indubbiamente migliore della versione di Emmerich, il Godzilla del 2014 non è quindi tutto rose e fiori. E infatti continuo a ritenere Kong: Skull Island più riuscito. Ciononostante sono dell’idea che la somma dei pregi (a cui va aggiunta la splendida e martellante colonna sonora di Alexandre Desplat) superi di gran lunga quella dei difetti.

Quel che è certo è che nelle mani di un altro regista difficilmente il film avrebbe avuto il medesimo successo. Per fortuna Gareth Edwards, a dispetto di qualche scelta contestabile (ad esempio quella di tagliare buona parte dei combattimenti tra mostri proprio nell’attimo in cui hanno inizio), si è rivelato la persona giusta per portare il kaiju giapponese in America. Chissà se i futuri registi del Monsterverse saranno alla sua altezza.

Fabio Ferrari

Classe 1993, laureato al DAMS di Torino, sono un appassionato di cinema (soprattutto di genere) da quando sono rimasto stregato dai dinosauri di "Jurassic Park" e dalle spade laser di "Star Wars". Quando valuto un film di solito cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma talvolta so essere veramente spietato. Oltre che qui, mi potete trovare su Facebook, sulla pagina "Cinefabio93".
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