Nella notte fra il sette e l’otto gennaio si è tenuta la settantacinquesima edizione dei Golden Globes Awards, e la sensazione è che non verrà ricordata tanto per i film e le serie premiati, quanto per la canonica sfilata sul red carpet. Nulla di nuovo, se non fosse che nel 2018 l’unica cosa ad avere una nuance diversa dalle sfumature notte / piombo / morte è stato proprio il red carpet. Già, perché quest’anno, in seguito al chiacchieratissimo caso Weinstein e alle accuse di molestie sbucate da ogni dove, le esponenti del gentil sesso che hanno avuto la fortuna di presenziare all’evento hanno deciso di vestirsi, tutte, rigorosamente di nero.
Iniziativa lodevole; donne che diventano paladine delle donne; finalmente qualcosa cambia; e via di questo passo. Femministe e sedicenti tali sono andate in brodo di giuggiole alla notizia, e chi osa dissentire viene immediatamente etichettato come un maschilista retrogrado, misogino e pure un potenziale maniaco. Ora, lungi da me difendere le sporche manacce dei cattivissimi maschi (così, senza distinzione; il maschio è cattivo per nascita), evviva Natalie Portman che attacca il suo discorso rimbrottando che nessuno fra i registi premiati è una donna (perché, così come il maschio è cattivo in quanto maschio, la donna è bella&brava in quanto donna, anche se ultimamente si può parlare apertamente solo della seconda qualità), e pazienza se, benvenuti a Hollywood, cosa si fa sul divano del produttore è cosa nota sin dai noir dei ruggenti Anni Venti; solo, fanciulle carissime, lasciatemi esporre un concetto che Carrie Bradshaw, sempre sia lodata, ha espresso all’incirca in ogni puntata di Sex & The City.
Ragazze, il nero ha smesso di essere un colore casto, luttuoso e monacale all’incirca all’inizio del secolo scorso. E a giudicare dalla profusione di scollature, spacchi, strass e velluti che avete giustissimamente sfoggiato l’altra sera, è probabile che lo sappiate meglio di me. Con la differenza che io ho un adorato, personalissimo little black dress che ho significativamente ribattezzato “l’abitino da battaglia”, e non “bandiera per una battaglia di genere”. Ma chi sono io per ergermi a maestra di stile? Nessuno, ovvio. Ma Audrey Hepurn, Anita Ekberg, Olivia Newton John, solo per citarne alcune? Loro sì, sono qualcuno. Ecco dunque una carrellata di eroine del grande schermo, e dei loro vestiti; nerissimi, elegantissimi, bellissimi.
Cominciamo con lei, l’icona di stile per eccellenza, quella a cui chiunque pensa quando si parla di classe, beltà e abiti neri. Signore e signori, ecco a voi Audrey Hepburn. Ora, qual è la prima cosa che vi viene in mente quando pensate a questa attrice? Brioches, diamanti, Fifth Avenue e un lungo, splendido tubino nero accompagnato da un filo di perle. Colazione da Tiffany non è solo la trasposizione del celebre romanzo di Truman Capote; è ciò che ha ridefinito il concetto stesso di eleganza. La protagonista Holly Golightly a tutto aspira, fuorché a passare inosservata; e riesce nel suo intento proprio grazie a quell’indicabile pezzo di stoffa. Piccola nota di colore: non solo la Hepburn compie il portento di risultare sia algida che indimenticabile; ma, in quel film, mette in scena un personaggio che fa una professione non propriamente linda. Giusto per via del colore castigato.
Come dite? Gli americani da che mondo è mondo sono sempre stati all’avanguardia? Perfetto: Blake Edwards in effetti girò Colazione da Tiffany nel 1961. Da noi, nella tradizionalista, mediterranea Italia, quella delle donne che entrano con il velo in chiesa e portano il lutto per tutta la vita, Federico Fellini si dedicò a La dolce vita un anno prima. Anche in questo caso, la scena che chiunque ricorda è una: il celeberrimo bagno nella fontana di Trevi di Anita Ekberg. Forme opulente, sculture altrettanto barocche e un infinito strascico di velluto nero che galleggia sull’acqua. Nella vita ci sono poche certezze, tranne che la Ekberg, quando girò questa scena, a tutto pensava, fuorché a ingaggiare una lotta contro la sessualizzazione delle sue simili – che poi ragazze, “sessualizzazione” è un termine orrendo, il primo passo per vincere in queste cose è adottare un vocabolario decente.
Ma proseguiamo: gli anni passano, i musical impazzano, e nel 1978 un John Travolta sulla cresta dell’onda e una Olivia Newton John in cerca di notorietà si incontrano sul set di Grease. Lei per i tre quarti del film è vestita con leziose gonne a ruota in tutte le sfumature del rosa, porta camicette accollatissime ed è quanto di più insopportabile si possa incontrare in mezzo alle siepi delle villette a schiera. Al contrario, la sua amica Betty Rizzo (Stockard Channing) è tutta pantaloni attillati, scollature e capelli rosso fuoco, e manco a dirlo è infinitamente più simpatica. Poche speranze per Sandy, questo il nome della protagonista, finché non si decide per un cambio radicale di look: tacchi alti, top microscopici e pantaloni di pelle che lasciano ben poco all’immaginazione. Indovinate? Total black. E indovinate ancora? Sally, da sfigata della scuola, si trasforma in donna forte e indipendente. Ma non nel senso pedante del termine; Sally, semplicemente, diventa una che se la gode, e senza doversi giustificare. Una cosa è certa: se avesse deciso di appuntarsi su qualche residuo di stoffa libero la spilla Time’s Up, mantra di questi Gloden Globe, in pochi ci avrebbero fatto caso.
Arriviamo di gran carriera al nuovo millennio: Reese Whiterspoon, ancora lontana dal sofisticato successo di Big Little Lies, conquista intere schiere di adolescenti con il divertentissimo La rivincita delle bionde. Perfetto stereotipo della ragazza carina, viziata e scema, Elle Woods per riprendersi da una delusione sentimentale e gustarsi la sacrosanta vendetta decide di iscriversi in legge ad Harvard e diventare un rampante avvocato – non so se “avvocatessa” sia stato sdoganato, ma in ogni caso mi rifiuto di usarlo. Vestitini rosa shocking e mosse da vamp fino all’ingresso delle aule del tribunale, dopodiché strizzatissimi tubini ancora più sexy delle mise precedenti; ma, guarda un po’, tutti neri. Perché se il rosa fa Marilyn Monroe, il nero fa donna in carriera. Che forse è quanto volevano trasmettere le paladine dei Golden Globe; peccato solo che l’abbiano resa una tale lagna da sembrare piuttosto il lamento di una casalinga disperata.
Last but not least, il film che mi ha fatto innamorare nuovamente dei musical: La La Land. Che, oltre ad avere una colonna sonora di rara bellezza e una storia come non ne fanno più, ci mostra una Emma Stone in forma smagliante che in un paio d’ore riesce a indossare all’incirca tutti i colori dell’arcobaleno: blu elettrico mentre è alla ricerca del suo Someone in the Crowd a un party che non doveva essere troppo diverso da quelli di Weinstein, giallo acceso nel passo a due con Ryan Gosling, verde brillante mentre immagina il suo futuro da star. E una volta che lo ha raggiunto, questo tanto agognato futuro? Proprio lui: un perfetto, essenziale tubino nero. Ecco, forse è proprio qui l’anello di congiunzione con le ragazze dei Golden Globe: la sua vita è lussuosa, scintillante, invidiabile. Ma forse, non proprio come se la immaginava.
È probabile che tra qualche anno ci ricorderemo di questa battaglia di inizio 2018 con un sorriso distaccato, un misto di affetto e nostalgia. Sino a quel momento, abbiamo a disposizione ben poche certezze, ovvero: il nero sta bene a tutte, rende elegante anche un bancale e sfina, porca miseria se sfina; non importa se nell’armadio abbiate un tailleur Chanel o un lisissimo maglioncino Zara di emergenza, quel capo sarà sempre il vostro salvavita nelle occasioni importanti; e infine, non importa quanto si cerchi di incupirlo, un red carpet resterà sempre un’esplosione di gioia, talento e novità. E allora viva il nero, vestitevi di nero ogni giorno per tutti i giorni dell’anno, dal cappotto alla camicia ai calzini e alle mutande; solo, fatelo con lo spirito di Holly, Sylvia, Sandy, Elle, Mia. O, meglio ancora, con quello delle svitatissime suore di Sister Act: