Sarò diretta: amo gli anime. Ma li amo proprio alla follia. Solo a sentir pronunciare “Miyazaki” il mio cuore trema un po’. Lo so, ovviamente Hayao e il figlio non sono gli unici al mondo a realizzare anime, anzi. Ricordiamo, ad esempio, il genio indiscusso di Evangelion (che peraltro ADORO) Hideaki Anno.
Comunque, il nome Miyazaki è ormai indelebilmente impresso nella mia memoria, anche perché i film di Hayao hanno attraversato la mia infanzia. E come non avrebbero potuto. Per una psicocinefila come me era impossibile ignorare queste opere meravigliose. Abituatevi: tesserò lodi infinite che manco Arianna (+ potrei spoilerarvi xd)
Questo bellissimo uomo è ovviamente il grande Hayao Miyazaki. E già qui troviamo, sparsi un po’ ovunque, i personaggi di vari film del regista, come Princess Mononoke e Porco Rosso, anche se i miei preferiti sono sicuramente e inequivocabilmente La città incantata e Il castello errante di Howl.
Ciò che mi preme sottolineare è la straordinaria capacità del regista di scavare l’animo umano. E ciò viene fatto in film d’animazione, che danno al tutto un’aura magica, un velo sentimentale che ancor più accentua la psicologia dei personaggi messi in scena, con i loro caratteristici occhi enormi.

Tuttavia, ci sono altri due film che mi hanno colpito profondamente, ma questa volta è il Miyazaki Junior a metterli in scena. Sì, parlo proprio del figlio del Supremo: Gorō Miyazaki. Sicuramente non sarà stato facile per lui emergere con una figura così ingombrante come il padre, eppure, Gorō ci delizia con I racconti di Terramare nel 2006 e La collina dei papaveri nel 2011.
I racconti di Terramare, con cui il giovane regista esordisce, non è stata un’impresa facile. Anzi. Gorō era subentrato alla realizzazione del film un po’ contro il volere del padre, che non lo considerava ancora pronto a dirigere un film d’animazione. Sarà forse un caso che il film cominci con l’assassinio del padre da parte del protagonista? E sarà un’altra coincidenza la mancanza della figura paterna anche ne La collina dei papaveri? Mi sa proprio che no.
Mi è spiaciuto, sinceramente, leggere e sentire commenti riguardo a questo film come “Gorō Miyazaki non ha eguagliato il padre“. Innanzitutto, come ho detto anche prima, già non sarà stato facile emergere al fianco di una figura quale Hayao, in più se a ogni film che fa lo dovete paragonare al padre ‘sto povero cristo mi cade in depressione. Su dai, per favore. Apprezziamo le opere in quanto tali.
Sicuramente ci sono delle analogie tra i film del padre e quelli di Gorō, come vi mostrerò tra poco, però non necessariamente bisogna fare paragoni discriminanti e dissacranti. Anche Sofia Coppola è figlia d’arte di Francis Ford Coppola, ma questo non significa che ogni suo film vada paragonato alle opere del padre.
I racconti di Terramare
Il film è ambientato in un regno geograficamente e temporalmente non conosciuto. A capo di questo regno troviamo un re, il cui figlio, Arren, soffre di gravi crisi. Queste, lo portano a un vero e proprio sdoppiamento di personalità. Durante uno di questi sdoppiamenti, Arren pugnala suo padre e poi scappa, portandosi via la sua spada, che per magia non può essere sguainata se non dal re.
Durante la sua fuga, il principe viene aiutato dal mago Sparviere, con cui continuerà il suo viaggio. I due vanno a fare visita a Tenar, una maga amica di Sparviere. Qui ritrovano Therru, una ragazza che Arren aveva salvato da degli schiavisti, anch’essa ospitata da Tenar.
Arren apprende che Sparviere non è un semplice mago, ma in realtà è Ged l’Arcimago, capo di tutti i maghi, in continuo viaggio per il mondo degli uomini per cercare di capire il motivo per cui le energie del mondo si stanno affievolendo. La loro tranquillità è però minacciata da Aracne, un potente ex-mago conoscente di Sparviere e capo dei mercanti di schiavi del paese, che vuole a tutti i costi scoprire il segreto della vita eterna.
Sicuramente è una storia molto avvincente, che a me piace molto. Mi spiace solo che la fine della narrazione lasci diversi punti interrogativi. Ci sono nodi che non vengono sbrogliati, e alcuni elementi dovevano essere sicuramente meglio approfonditi. Vale comunque la pena vederlo, anche se effettivamente si rimane un po’ con l’amaro in bocca.
Una delle cose che più mi affascina del film, anche se pure questa non è così ben spiegata, è l’identità. Con Arren apprendiamo che ogni persona ha un nome con cui si presenta a tutti, ma ne ha un altro che concede solo a pochi, in modo che solo alcuni conoscano veramente la nostra vera essenza.
Questo concetto del nome e dell’identità non può non richiamare alla mente La città incantata di Miyazaki senior, in cui Yubaba dà a Chihiro, la protagonista, un altro nome per lavorare per lei e salvare i suoi genitori. Il nome in questione è Sen, infatti un altro titolo del film è proprio La sparizione di Sen e Chihiro, che in qualche modo rievoca uno sdoppiamento. Inoltre, ne I racconti di Terramare troviamo dei draghi, che richiamano un po’ quello in cui si trasforma Haku.
Possiamo notare possibili analogie anche tra I racconti di Terramare e Il castello errante di Howl. Innanzitutto, il “mostro” in cui si trasforma Aracne e quello in cui si trasforma Howl possono sembrare simili. E poi, in una scena in cui Arren fa un sogno, possiamo vedere un cielo stellato che richiama le stelle cadenti del passato di Howl.
Tra l’altro, elemento comune che aggancia questi ultimi due film, può essere la metafora ecologista, tema inserito a più riprese nella maggior parte dei film firmati Ghibli. Anche nel film di Gorō Miyazaki vi vediamo dei riferimenti, come alcune scene in cui sembra esserci proprio del petrolio.
Molto interessante e originale del film di Gorō è invece l’inserimento di temi estremamente forti quali lo schiavismo e la tossicodipendenza, anche se quest’ultima viene presentata in misura molto molto ristretta. Non è sicuramente semplice, e direi neanche comune, affrontare questioni del genere all’interno di film d’animazione, e questo bisogna riconoscerglielo.
I racconti di Terramare ha le basi per essere un’opera praticamente perfetta, ma la trama e la sceneggiatura hanno evidentemente messo i bastoni fra le ruote al raggiungimento di questa perfezione. È veramente un peccato, in quanto il film si presta sin da subito come opera molto interessante, salvo per i vari buchi alla fine non colmati.
La collina dei papaveri
Questo titolo mi aveva conquistata sin da subito, e dopo averlo visto mi ci sono legata indissolubilmente. Il film, ambientato a Yokohama nel 1963, ci viene raccontato per la quasi totalità dagli occhi di Umi, una ragazza di 16 anni. Suo padre è morto in mare durante la guerra di Corea, e sua madre invece è docente universitaria negli Stati Uniti.
La ragazza vive quindi con la nonna e i fratelli minori in una grande casa ricavata da un ex ospedale, costruito sulla “collina dei papaveri” che domina il porto. Nella casa, oltre a loro, abitano anche tre ragazze pensionanti. Umi ogni mattina issa due bandiere di segnalazione marittima che significano “prego per una navigazione sicura“, così come le aveva insegnato il padre da piccola.
Altro protagonista della vicenda è Shun, un ragazzo di 17 anni. Ogni mattina egli vede dalla barca del padre, con cui arriva per andare a scuola, quello strano rituale con le due bandiere che si ripete giorno dopo giorno. Ne è talmente incuriosito da scriverci una poesia che pubblica sul giornale della scuola: “Oh fanciulla, tu issi le bandiere“.
Accanto alla storia che segue le vicende dei due ragazzi, troviamo una vena più “politica”, o se volete più culturale. La scuola di Umi e Shun è infatti in fermento in quanto si sta dibattendo sulla demolizione del “Quartier Latin“, un vecchio edificio accanto alla scuola adibito a sede dei club scolastici.
Questo è il luogo della cultura, in cui si incontrano studenti che trattano ogni tipo di disciplina. Dalla filosofia (presentata con bonaria ironia) alla scienza, dal teatro all’archeologia. Ma la cosa che più colpisce nel momento in cui entriamo nel Quartier insieme a Umi, sono le inquadrature descrittive dell’interno del palazzo che non possono non richiamare il polveroso ingresso del castello di Howl, altro riferimento ai film del padre.
Persino quando gli studenti si impegnano a pulire tutto il palazzo per cercare di preservarlo possiamo notare un’analogia che, seppur banale, salta comunque all’occhio (specialmente se siete fan accaniti di Miyazaki e notate pure quanti capelli hanno in testa i personaggi come me). L’acqua sul pavimento è esattamente identica a quella di quando Sophie spazza via tutta la sporcizia dal castello.
Potranno sembrare dettagli irrilevanti, ma secondo me c’è qualcosa di veramente profondo in queste “piccolezze”. Ricordiamo infatti che Hayao Miyazaki ha lavorato alla sceneggiatura de La collina dei papaveri. Infatti, la figura paterna è estremamente rilevante, sia per Umi che per Shun, che si ritrovano a condividere uno strano destino.
Seppur meno evidenti di quelli de Il castello errante di Howl, anche La collina dei papaveri presenta delle sfumature politiche. Le notiamo soprattutto dalle assemblee tenute dagli studenti, quando salta fuori il ricordo della Guerra di Corea, avvenuta una decina d’anni prima del presente filmico.
Inoltre, in entrambi i film le protagoniste sono figure femminili molto forti. Si tratta di due giovani ragazze, entrambe con grandi responsabilità per la loro età. Sophie lavora come cappellaia nel negozio di famiglia, Umi aiuta a gestire l’ostello in cui vive preparando ogni giorno pasti per tutti.
Entrambe sono caratterizzate da una mancanza paterna e anche la figura materna è abbastanza assente: come la madre di Umi insegna negli Stati Uniti, anche quella di Sophie è spesso via. E poi, come salta ovviamente all’occhio, le due ragazze hanno in comune una nascente storia d’amore.
Sicuramente, per quanto La collina dei papaveri sia una storia più “semplice”, si risolve sicuramente meglio de I racconti di Terramare. Tuttavia, entrambe le opere di Gorō Miyazaki sono estremamente affascinanti, che meritano assolutamente di essere viste.