
He Got Game – Il basket come metafora di vita
He Got Game è uno dei film più popolari del regista più nero di tutti: Spike Lee. Ottimo modo per fare apprezzare lo sport a chi non lo fa.
In campo come nella vita
Questo film parla di Basket. Vi chiederete voi: perché guardare He Got Game se non siete interessati alla pallacanestro?
Mi piace sempre pensare che, da appassionato di sport (non maniaco badate bene) e di umanesimo contemporaneamente, abbia una mia personale missione umanitaria. Trovo sia importante far comprendere, a chi di sport non interessa un fico secco, come questo mondo non sia solo fatto di beceri tifosi tracannanti Ceres davanti al Bar Sport, bestemmie, corruzione, bellocci strapagati, schedine e quant’altro.
Mi disconosco da tutto ciò. Lo sport è pur sempre epica moderna e si fa contenitore di storie umane pazzesche. Trovo ad esempio che, dopo “tira più un pelo di f**a che un carro di buoi”, la frase più esplicativa dell’animo umano mai detta da un individuo sia la famosa legge di Nereo Rocco:”In campo come nella vita“.
Penso che per capire ciò vi basterebbe ascoltare per un minuto un qualsiasi video di Federico Buffa. Farò tuttavia un tentativo personale.
Un film come He Got Game potrebbe essere considerato un ottimo mezzo per farvi capire ciò.
Sport americano
Serve una premessa per chi non conosce il funzionamento dello sport professionistico americano. Negli USA non esistono squadre giovanili “private”. Non esistono, ad esempio, i pulcini dei Chicago Bulls o gli allievi dei New York Yankees. Lo sport a livello pre-professionistico è interamente a carico delle istituzioni scolastiche.
Fino al liceo i bambini sono organizzati nelle varie squadrette delle scuole e giocano piccoli campionati locali. Una volta arrivati al liceo conoscono una prima selezione: gli allenatori sono solitamente professionisti e provinano tutti i ragazzi interessati a giocare, dividendoli in squadre per valore (squadra A, B e così via). In questa fase, crescendo, i giocatori cominciano a scontrarsi a livello statale e interstatale.
Arrivati all’ultimo anno di liceo arriva il momento di farsi notare dalle università che, se interessate a un giocatore, offrono lui una borsa di studio. Il giocatore può così scegliere un corso di studio qualsiasi dell’ateneo. Può conseguire un titolo universitario con un programma speciale che gli lasci spazio per svolgere l’attività principale per cui si trova lì: giocare e diventare un professionista.
I giocatori possono poi accedere al mondo delle leghe professionistiche dichiarandosi eleggibili per il draft (la scelta) dove vengono selezionati dalle varie squadre. Solitamente i giocatori concludono il loro ciclo di studi prima di essere scelti. Accade spesso che giocatori molto talentuosi vengano selezionati senza che abbiano finito l’università o addirittura, se molto forti, senza manco entrarvi.
Ne consegue che sia molto importante per un ragazzo povero, se talentuoso, scegliere bene. Esistono infatti università famose più per le loro selezioni e i loro allenatori che per la didattica.
Il film
La vicenda in questione si svolge nel momento di una di queste scelte. Jesus Shuttlesworth è considerato un possibile futuro fenomeno e gioca in un liceo di Brooklin. Si avvicina per lui il momento di scegliere cosa fare il prossimo anno.
Le migliori università del mondo gli offrono una borsa di studio e lo invitano nei loro atenei, cercando di sedurlo in tutti i modi, offrendogli orologi, macchine e ragazze. Uno stuolo di agenti senza scrupoli, inoltre, cerca di convincerlo a dichiararsi eleggibile in NBA. Una scelta che garantirebbe guadagni immediati.
Persino alla sua fidanzata vengono offerti soldi per chiederle di esercitare influenza su Jesus.
Il ragazzo è certamente lusingato, ma queste pressioni non sono facili da gestire. Sarebbe importante scegliere un università che gli dia l’opportunità di crescere e diventare un grande giocatore, ma d’altra parte arrivare subito in NBA gli garantirebbe subito di avere i soldi per tirare fuori la sua famiglia da una situazione difficile.
Perché difficile? Egli vive con la sua sorellina dai suoi zii perché il padre, Jake (Denzel Washington), è da 6 anni in galera per omicidio preterintenzionale della moglie, sua madre. Gli zii infatti indirettamente fanno pressione per quest’ultima soluzione, visto i soldi spesi per crescerlo.
Nel frattempo proprio a Jake viene offerto dal direttore del carcere una forte riduzione di pena se riuscirà a convincere il figlio ad iscriversi all’università locale di Big State. Viene data dunque una settimana di tempo al padre per riallacciare i rapporti con il figlio.
Che vuoi che sia, gli ha solo ammazzato la madre. Una birra al pub e amici come prima.
A questo punto, insomma, non c’è una persona per Jesus che non voglia convincerlo a scegliere in un senso o nell’altro.
Lo sport come redenzione
Finora non credo di avervi convinti molto sullo sport. Vengono infatti mostrati i peggiori elementi che questo mondo può mostrarci: arrivisti, agenti e parenti che vedono ragazzi come enormi sacchi di monete d’oro. Abbiamo poi un padre che, non solo ha ammazzato la moglie (se pur non intenzionalmente), ma che adesso pretende pure di lucrare sul futuro del figlio per ottenere uno sconto di pena.
Scopriamo, invece, che quello a cui punta il padre, nella settimana concessagli, è una redenzione per il peccato di cui si è macchiato verso una donna che amava realmente e verso suo figlio con cui ha sempre avuto un rapporto controverso.
Sia l’omicidio che il rapporto con suo figlio non erano causati da mancanza di affetto, ma da un carattere iroso sviluppato per colpa delle traversie della vita e di un esistenza passata in un quartiere povero e malfamato.
All’uscita di prigione conosce una prostituta e se ne innamora al primo sguardo. Aiutarla a uscire da una vita da bandita sarà il primo processo di redenzione di Jake.
Più complicato sarà ricucire il rapporto con Jesus. Una relazione che, prima del fattaccio, si muoveva sul sottile filo che separa ammirazione per il padre e orgoglio. Lo sport fin dall’inizio era stata la cartina al tornasole di questa controversia. Jake era stato infatti il primo maestro di basket del figlio e i loro duelli nel campetto dietro casa avevano forgiato le abilità del giovane Jesus, ma compromesso la serenità del rapporto e, adesso, la possibilità di un perdono.
Dopo giorni in cui Jake tenterà di stabilire un contatto con Jesus, troverà l’unico modo per farlo: su un campo di basket. Solo lì, infatti, dove le parole non servono e gli uomini tirano veramente fuori loro stessi, questo contatto avrà luogo.
Da guardare con attenzione
Spike Lee, con He Got Game, ci riesce in pieno, arrivando come pochi a farci capire come nello sport ci possa essere molto di più.
Egli mostra i peggiori lati dell professionismo moderno e, con un finale dolceamaro, dimostra come in mezzo ad essi possa emergere la bontà. Per fare ciò si avvale di un cast molto particolare. Oltre a un attore versatile come Washington e un altro pugno di ottimi mestieranti, butta nella mischia tutto il basket.
Per chi non lo conoscesse, infatti, il protagonista Jesus è interpretato da un vero cestista professionista: Ray Allen, uno dei migliori giocatori che abbiano calcato i parquet degli anni ‘oo. Lee voleva, infatti, inserire un elemento di realismo nella pellicola, così ha provinato decine di giocatori NBA, per capire chi avesse maggiori abilità recitative.
Ha poi inserito qua e là decine di personalità legate alla pallacanestro a stelle e strisce. I più profani riconosceranno probabilmente solo Charles Barkley, Shaquille O’Neal e Michael Jordan. Abbiamo tuttavia anche gente del calibro di Rick Fox e Reggie Miller.
La quantità di attori non professionisti è considerevole, ma la regia di Spike valorizza incredibilmente la storia. Una vicenda che, anche tramite una colonna sonora ad hoc, ci mostra come una semplice palla possa significare molto di più che due ginocchia sbucciate o un gruppo di montati che cagano soldi.