Hill House – Da Shirley Jackson a Mike Flanagan, passando per Stephen King: Netflix stavolta avrà fatto centro?
Il placet del Re
Per molti è cominciato tutto così, con un tweet dello zio Stephen, un tweet non richiesto, inaspettato, che arriva dal nulla a elogiare una serie della quale non si era sentito troppo sentito parlare. Certo, il romanzo da cui è stato molto liberamente tratto (L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, 1959) è una delle pietre miliari dell’horror moderno e tutti gli appassionati lo conoscono, ma essendo che questa serie era
passata un pochino sotto silenzio non tutti avevano prestato troppo ascolto al tweet di King: d’altronde è abbastanza lapalissiano come il Re di cinema e serie (vedi solo quegli ultimi aborti de La Torre Nera e Cell) non se ne sia mai capito più di tanto.
C’è però un marchio di fabbrica, che secondo me certifica la validità di questo prodotto, anche prima di averne visto un solo minuto: il marchio di fabbrica è il nome di Mike Flanagan, giovane regista che sta all’horror come Kylian Mbappè sta al calcio. Già, perché dopo perle rare come Oculus, Somnia, Hush, Ouija – L’origine del male (ottimo prequel del pessimo Ouija) e – già per Netflix – Il gioco di Gerald, possiamo dire come il suo talento sia puro e cristallino.
Talento di narratore, come vedremo, prima ancora che di regista.
I mostri più spaventosi sono sempre gli esseri umani
Una famiglia.
Sette persone.
Mamma, papà, fratello maggiore, due sorelle, due gemellini, maschio e femmina: Olivia, Hugh, Steve, Shirley, Theo, Luke e Nell. Questo sono i Crain, assoluti protagonisti di Hill House, insieme alla casa, ovviamente, e alle presenze che la infestano.
La serie ruota attorno alla morte, apparentemente per suicidio, di Nell, la sorellina più piccola, che costringe il resto della famiglia a riunirsi dopo anni in cui i rapporti si sono sfilacciati per via di un passato tenebroso e tante (tantissime) incomprensioni e ferite ancora aperte. Hill House è la storia di come la famiglia Crain sia stata progressivamente distrutta dai terrori vissuti (e negati) nelle otto settimane di residenza a Hill House, quasi trent’anni prima, quando la madre Olivia era ancora viva, e di come in sostanza i sette non siano mai usciti dalle porte di quella casa maledetta.
Flanagan decide di mettere in piedi una narrazione discontinua, spezzettata, fatta di continui salti tra passato e presente, salti compiuti tramite libere associazioni, frasi che tornano a essere pronunciate a trent’anni di distanza, porte che si aprono nel passato e si chiudono nel presente, mostri che strisciano dall’infanzia all’età adulta, fantasmi rimasti aggrappati ai cornicioni delle finestre.
Ogni episodio ha un proprio POV (Point of View), ovvero un personaggio che ci fa da guida negli incubi della famiglia Crain e ci svela chi sono, dal proprio punto di vista, i suoi familiari, ci racconta la sua personalissima storia, per poi passare nell’episodio seguente a un altro punto di vista che spesso e volentieri ribalta quello precedente, facendoci riconsiderare i personaggi che pensavamo di aver già conosciuto. Lo scopo di Flanagan è chiarissimo: farci capire che non ci sono eroi nella famiglia Crain, tutti sono – a modo loro – un po’ vittime e un po’ carnefici di qualcun’altro.
Stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti
Per quanto sia sublime la tecnica narrativa messa in piedi da Flanagan e dal suo team di sceneggiatori, non possiamo però non segnalare quanto in realtà sia derivativa da un modello d’eccezione, cioè It, il capolavoro indiscusso di Stephen King. Esattamente come King in It, Flanagan ci racconta di sette personaggi, ripercorrendo i due momenti di un trauma sovrannaturale da loro vissuto circa un trentennio prima, mostrandoci gli effetti (spesso negati o addirittura dimenticati) che ha avuto sui personaggi stessi, personaggi che nella loro vita adulta sono in qualche modo rotti dentro, avvelenati da un passato fumoso e non del tutto affrontato.

Flanagan, a differenza della recente trasposizione di Muschietti, coglie e ripropone il montaggio spezzettato che aveva il romanzo di King: l’orrore infatti sta tutto nelle persone, in quello che sono disposte a farsi reciprocamente, sta nelle loro nevrosi, ma anche nel fatto che il passato non è mai passato, ma sempre presente, che le porte tra l’adesso e l’allora non sono mai chiuse, che basta una parola, un paesaggio, una banale concatenazione di circostanze per tornare indietro nel tempo e ritrovarsi pietrificati di fronte ai mostri che si credevano solo stupidaggini infantili. Esattamente come in It, Hill House è una serie corale, che racconta il diventare adulti usando l’orrore come MacGuffin.
Le case infestate, pare suggerirci Flanagan, stanno dentro di noi e ognuno si porta dentro la sua personale Hill House, fatta di silenzi e prepotenze verso coloro che amiamo. Questo è il vero orrore, sviscerato alla perfezione in dieci episodi al cardiopalma, che incantano, stregano e – finalmente! – terrorizzano, sia per la gestione dei poltergeist/fantasmi che tormentano i Crain, sia per la capacità del regista di farci affezionare ai singoli personaggi. Se siete in cerca di serie horror come si deve lasciate perdere i vari American Horror Story (decenti solo le prime due stagioni), The Walking Dead, Requiem, The Exorcist e altra monnezza de(l)genere.
Il cast di Hill House è, tra l’altro, ottimo, con la milfissima Carla Gugino ed Henry Thomas (già diretti da Flanagan ne Il gioco di Gerald) nel ruolo dei tormentati genitori Crain, Michiel Huisman (il Daario Naharis 2.0 de Il Trono di Spade), McKenna Grace (Indipendence Day – Rigenerazione, Ready Player One) e un sacco di altri attori più o meno giovani, quasi tutti fedelissimi di Flanagan.
Al di là di qualche ingenuità connaturata al genere horror, i classici “ma ‘ndo cazzo vai al buio da sola?”, qualche jumpscare forse evitabile e un finale che poteva essere un pochino più incisivo, Hill House è una serie veramente splendida, che ci fa dire senza ombra di dubbio che questa volta Netflix ha fatto centro anche sull’orrore, a riprova del fatto che se si fa lavorare la gente con talento la gente con talento ripaga con prodotti commerciali, sì, ma anche artisticamente validi.
E questo, alla fine delle cose, è quello che ci importa, non è vero?