Film

Holy Motors, o della staticità dell’Ulisse postmoderno

Tendiamo spesso a riunire tutto sotto categorizzazioni. Questo certamente è un processo che aiuta l’orientamento nella miriade confusa di informazioni che caratterizza la complessità della modernità; ma è al contempo una pericolosa arma a doppio taglio che rischia di stringere troppo delle maglie mentali che poi divengono invalicabili. E così noi quindi parliamo di generi, di stili, di correnti di pensiero e vi facciamo riferimento tramite queste parole che contengono concetti preconfezionati: thriller, horror, noir, impressionista, idealista, fenomenologia e via dicendo. Anche Holy Motors ricorre a questo procedimento: ma per decostruirlo.

Le simpatiche categorizzazioni di cui sopra, ovviamente, si applicano a ogni campo dell’arte – soprattutto, aggiungerei – e di conseguenza anche al cinema. Quindi parleremo di capolavoro assoluto della storia del cinema, miglior film noir di sempre, cagata colossale, film che ha segnato una decade… Ora, in virtù di quanto già detto – quindi prendendo con le pinze queste fallaci classificazioni -, io credo che Holy Motors sia un film che non solo segna, ma che descrive un’epoca con una lucidità e una fermezza di intenti fuori dal normale.

holy motors

Sto per usare una formula che, se già sapete cos’è il film, avrete già sentito: Holy Motors è un film postmoderno sul postmodernismo. E quindi adesso abbiamo davanti una grossissima gatta da pelare: che cos’è il postmodernismo? Ebbene signori spettatori, oggi io un rasoio non ce l’ho, quindi non peleremo nessuna gatta. Non perché io non ne abbia la voglia o le competenze, ma perché servirebbe un articolo a parte, il quale non sarebbe comunque sufficiente.

Se l’argomento vi interessa e lo voleste approfondire vi segnalo qui tre testi di riferimento che vi daranno una visione abbastanza esaustiva del fenomeno. In primo luogo, imprescindibile è il saggio di Jean-François Lyotard intitolato proprio La condizione postmoderna: Lyotard è colui che ha teorizzato il concetto della postmodernità e analizza il fenomeno da un punto di vista filosofico.

Per secondo abbiamo invece Il sistema letterario nella civiltà borghese, testo di Ulrich Schulz-Buschhaus. Immagino che solo a leggerne il nome (sempre che ci siate riusciti) abbiate rinunciato all’impresa. Il saggio di Buschhaus non analizza solo il postmodernismo, ma propone un quadro storico della modernità che permette meglio di capire come è avvenuta la transizione da moderno a postmoderno. La sua analisi è di stampo letterario.

Infine, ultimo ma non ultimo, abbiamo Ruggero Eugeni col suo La condizione postmediale. I suoi genitori sono stati davvero crudeli. La condizione postmediale non è esattamente un testo sul postmodernismo, ma lo affronta teorizzando un ulteriore concetto – la postmedialità appunto – seguendo l’evoluzione dei dispositivi mediali e il loro rapporto con la società.

In ogni caso, giusto per intenderci mentre parlo, vi butto giù qualche concetto chiave del postmodernismo:

  • rifiuto del nuovo
  • mancata identificazione della ragione con la ragione tecnico-scientifica
  • molteplicità
  • sfiducia nei macro-pensieri onnicompresivi
  • destrutturazione dei paradigmi del passato

Per chi è ancora qui con me, ora parliamo del film. CON SPOILER.

personalità
Bruttino, eh?

Leos Carax, il regista, è una specie di miracolo. È il classico autore con la A maiuscolissima, di quelli che lo ami o lo odi. Io ovviamente lo amo. Holy Motors è tantissime cose, ma analizzato secondo una prospettiva cinematografica e tenendo fermo il concetto di postmodernismo, è un film nostalgico. Nostalgia rivolta al cinema stesso.

Nello scorrere della pellicola di tanto in tanto troviamo degli inserti di quello che solitamente viene chiamato “pre-cinema”. Nel caso specifico questi inserti provengono da L’enfant nu, course, aller et retour di Marey, che in realtà non è un regista ma un inventore. Ecco, la nostalgia di Carax è nei confronti di quel cinema “vero”, realizzato con interpretazioni di persone vere, con mezzi fisici e meccanici, ma con sempre la luce ad impressionare la pellicola.

Questa nostalgia però si espande, diventa quasi totalizzante. Oggi non viviamo più nell’enfasi del movimento, della ricerca continua del nuovo: tutto è già stato fatto e qualsiasi nuovo prodotto è già antiquato. Viviamo in un clima di staticità permanente, il che si pone in netto contrasto coi movimenti rapidi e repentini del ragazzo di L’enfant nu, course, aller et retour.

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L’enfant nu di Marey.

La staticità, questo clima di assopimento generale è significato immediatamente all’inizio del film con la rappresentazione di una platea quasi sonnambula, sospesa tra il sonno e la veglia: un pubblico (che di rimando saremmo noi spettatori), che guarda ciò che ha davanti con impassibilità, con noia e anche un pizzico di rassegnazione. E in questa stessa scena, solo poco prima, è lo stesso autore di Holy Motors a risvegliarsi dal sonno, tant’è che il suo personaggio è denominato “the sleeper”.

E difatti il film è lento. Non fraintendetemi, lento e noioso non sono sinonimi e un film noioso può non essere lento. È lento nel senso che si trascina, si prende i suoi tempi, procede che un ritmo smorzato che solo di rado ha qualche impennata. Ma non fraintendetemi, di nuovo: non è una caratteristica negativa, anzi è estremamente mimetica agli intenti.

holy motors

Statica è poi anche la vita del protagonista, interpretato da uno straordinario Denis Lavant. Costretto a ripetersi tutti i giorni, ad interpretare ruoli e parti diverse di sé stesso ma rinchiuso in una ciclicità senza via d’uscita. E lo sguardo di Lavant in numerosissime scene di Holy Motors è uno sguardo vuoto, quasi assente, uno sguardo a cui manca lo sguardo, inteso come prospettiva, e che quindi indica la mancanza di un senso.

«Ti piace ancora il tuo lavoro? Te lo chiedo perché alcuni di noi pensano che hai l’aria stanca ultimamente.»
«Alcuni non credono più in ciò che vedono.»

[…]

«La bellezza? Si dice che è nell’occhio, nell’occhio di chi guarda.»
«E se non c’è più nessuno a guardare?»

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Tramite l’interpretazione dei diversi ruoli da parte del protagonista, Carax ha la possibilità di decostruire il cinema, di scomporlo: il suo Holy Motors è anche un viaggio attraverso i generi cinematografici. Nel corso dei nove appuntamenti di Lavant ripercorriamo il dramma, il monster movie, il musical e via di seguito. Questa in particolare è un’operazione tipicamente postmoderna. Inutile sottolineare, quindi, il carattere squisitamente metatestuale e metacinematografico della pellicola.

Alla fine di ogni giornata il protagonista tornerà a casa. Nel finale di Holy Motors ci viene mostrato che ad aspettarlo, a casa, ci sono delle scimmie, probabile simbolo per indicare un ritorno alle origini.

Ma invece no, perché grazie ad una struttura pseudo-circolare Carax ci fa intendere che domani il protagonista ricomincerà da capo, esattamente allo stesso modo di oggi. E quindi hanno ragione le limousine parlanti nel finale:

«Avrai presto un sacco di tempo per dormire. Non ci vorrà molto prima che ci spediscano alla rottamazione.. stiamo diventando inadeguate.»
«Per cosa?»
«Silenzio!»
«Il vecchio 5700-bc-78 dice la verità. Gli uomini non vogliono più macchine visibili.»
«Sì, non vogliono più motori… niente più azione…»
«Amen

E perciò Holy Motors ci pone davanti ad una realtà dalle tinte funebri e mortuarie, dove anche la possibilità della riproduzione, della creazione è venuta meno: siamo fermi in un perpetuo ripeterci.

holy motors

Mario Vannoni

Un paesaggio in ombra e una luce calante che getta tenebra su una figura defilata. Un poco inutile descrivere chi o cosa sono io se poi ognuno di voi mi percepirà in modo diverso, non trovate?
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