
Hong Kong Express: poesia e solitudine tra pistole e fast food
Siamo in autunno, la routine vi annoia, vorreste viaggiare ma fa freddo e la tredicesima è ancora lontana? Non c’è problema: consolatevi con la settima arte e partite per l’estremo Oriente a bordo dell’Hong Kong Express. Diventato ormai un cult del genere, è uscito nel remoto 1994 a firma di Wong Kar-wai, regista fuori dal coro rispetto al panorama cinese in particolare e asiatico in generale. Siamo lontanissimi dagli intrecci criminosi di Infernal Affairs, che con questo film condivide la città di sfondo, dalla straniante disperazione coreana di Pietà o dall’intimismo nipponico e piuttosto noiosetto del recente Un affare di famiglia; piuttosto, la delicatezza e l’alienazione di Hong Kong Express ricordano in qualche modo Lost in Translation, ma con note decisamente meno occidentali.
Raccontare la storia di Hong Kong Express è parecchio difficile, dato che praticamente non esiste: da una parte abbiamo l’agente 223 (Takeshi Kaneshiro), piantato dalla ragazza e deciso ad abbrutirsi nei modi più improbabili, che si infatua di una misteriosa donna con una parrucca bionda (Brigitte Lin) invischiata in un traffico di droga; dall’altra un secondo agente, 663 (Tony Leung), pure lui con il cuore infranto, il quale frequenta quasi inconsapevolmente Ah Fei (Faye Wong), cameriera di un fast food che finisce per innamorarsi di lui, ma in modo poco deciso. Questi i fatti; ma questo film è soprattutto una sequenza di immagini, suggestioni, frasi non dette. Hong Kong, in due parole: sterminata, luccicante, spersonalizzata.
Con il solo ausilio di una videocamera a spalla, Wong Kar-wai ci presenta quattro solitudini, diverse eppure molto simili; quasi dei monologhi senza spettatore, dei binari che si incrociano per un solo istante prima di ripartire per destinazioni ignote e distanti. Non è un film d’azione, nonostante si corra molto e compaia qualche pistola; e nemmeno un film d’amore, anche se è ciò a cui tutti i protagonisti tendono, o vorrebbero tendere. Hong Kong Express è un film di silenzi, angosce, malinconie.
E aveva tutte le caratteristiche per essere un flop; invece, sarà che all’epoca l’Asia andava di moda, sarà che citare cose girate sull’altra costa del Pacifico fa sempre chic, fatto sta che ananas avariati, pupazzi giganti di Garfield e vicoli angusti e bluastri sono diventati un must per tutti i fan del genere. O, forse, sta tutto nell’abilità del regista di rendere la metropoli la vera protagonista del film: più che altrove, lo scenario si stacca dal fondale per diventare parte integrante del racconto.
Spesso vista in notturna, per strada, o nei suoi monolocali così suggestivi e così inabitabili, o ancora in tavole calde di quart’ordine talmente fredde da diventare più familiari delle case vere e proprie, Hong Kong è la tipica grande città orientale: quella in cui non vivreste mai, ma in cui passereste volentieri un paio di settimane; e, soprattutto, quella che adorate vedere sullo schermo. Ecco, forse è questo il senso di Hong Kong Express: un film che è un inno all’estetica. E che, in una serie ininterrotta di cartoline un po’ decadenti, ci ricorda che sì, siamo tutti soli; ma con infinita grazia.