Turutun turutun turutun. Scusate, mi ero perso nella puppet master theme di Jeff Beal. Dopotutto, in queste due puntate di House of Cards il burattinaio Frank torna a tirare i fili delle sue marionette, che danzano ignare di avere la volontà legata da un filo d’acciaio. Ah, se non avete letto le mie recensioni precedenti e volete recuperare le trovate qui, qui e qui.
Ok, sono pronto a gettarmi nei cinici intrighi della coppia Underwood. Mind the spoilerz ovviamente (between the train and the platform). Zoe docet.
Cominciamo con una cosa: queste due puntate hanno confermato tante mie supposizioni (alimentando ovviamente il mio ego malato), perché molte cose che avevo predetto si sono avverate. In primis la Dunbar che annuncia il ritiro della sua candidatura. Ciao ciccia, pensavi davvero di potercela fare puntando sulla legalità e sulla trasparenza? Forse non hai capito cosa vuol dire essere un politico (o, almeno, un politico vincente).
E poi finalmente vediamo lui, il candidato repubblicano alla presidenza: Will Conway. Bello, giovane, simpatico, brillante, con una moglie e una famiglia perfetta. Questa sorta di Matteo Renzi 2.0 condito in salsa americana è ideale per correre alla Casa Bianca. Usa Twitter, Instagram, fa le videochat live, insomma se qualcuno si fosse chiesto cosa sarebbe successo se uno youtuber fosse mai entrato in politica, Will è la risposta di House of Cards. E io continuo a dire che hanno preso spunto dal nostro premier.
Però sappiamo tutti che più una cosa sembra perfetta meno la è, quindi staremo a vedere quali scheletri nell’armadio avrà. Di sicuro rappresenta il modello americano, cioè quel modello che urla U.S.A. a squarciagola appena vede una bandiera a stelle e strisce. Il tocco di classe degli sceneggiatori è proprio l’arruolarsi di Will il giorno dopo l’11 settembre (sarà vero?). Quindi cosa può volere di più l’America? Un candidato perfetto sotto ogni punto di vista, e in più ex soldato andato ad esportare democrazia nel mondo. Non solo, se usa pure lo slogan meno governo, meno tasse, più libertà ha praticamente la vittoria in pugno. Anche se, detto da un repubblicano, stona un po’. Comunque, se House of Cards non fosse solo una serie TV la Clinton e Trump non avrebbero scampo.
Perciò Frank si trova davanti un avversario diametralmente opposto a lui, sotto ogni punto di vista: l’età, la famiglia, lo stile di vita, le idee (no quelle no, in politica non contano molto). Un avversario non facile da battere, soprattutto se c’è ancora la questione Claire da risolvere. La domanda è: cosa le ha promesso Frank? Perché la vice-presidenza sembra davvero difficile da conquistare, tenendo conto dei problemi di inesperienza politica di Claire. Però, visti gli ultimi sviluppi, c’è forse uno step intermedio che potrebbe essere abbordabile: la segreteria di stato. Il passato lavoro alle nazioni unite sarebbe il giusto trampolino di lancio, soprattutto se il posto di Cathy Durant viene liberato per farla diventare vice-presidente. Vedremo. Io però sono davvero contento di vedere gli Underwood di nuovo affiatati come non mai. Non così felice da tatuarmi le loro facce sulla schiena, ma almeno da tappezzarmi la stanza di loro poster. Sembrano tornati quelli della prima stagione, ed è lo stesso Frank a ricordarlo. Quello che mi chiedo è se la coppia abbia valore solo in funzione di un obbiettivo. Perché una volta raggiunto (o una volta fallito), ci sarebbe davvero qualcosa per cui andare avanti?
Sicuro è che i problemi che si stagliano all’orizzonte non sono da poco. Intanto, queste puntate confermano il fatto che molto spesso guardare House of Cards è come guardare un telegiornale. Soprattutto ora che è apparso questo ICO, cioè l’equivalente dell’ISIS con le lettere diverse. Sono sicuro che se ne parlerà, e anche molto. Poi la presenza della National Rifle Association, come una sorta di piovra che avviluppa ogni aspetto della realtà americana. Il dibattito sulle armi è sempre un problema spinoso per gli Stati Uniti, e House of Cards dimostra di mantenersi sempre su quella linea, perché per i personaggi prendere una posizione politicamente netta rischierebbe di essere molto controproducente. Meglio cercare di utilizzare l’influenza della NRA per raggiungere i proprio scopi, e se qualcuno si compra vagonate di armi al mercato nero e poi va ad ammazzare un po’ di gente in giro conta poco. U.S.A.! U.S.A.! U.S.A.!
E poi c’è forse il problema più grande, anche se non lo sembra perché difficilmente giungerà a qualcosa. Tom Hammerschmidt. Raccolta la volontà di Lucas, decide di scoprire se le sue teorie erano reali o meno, anche se in cuor suo sa che Frank Underwood è un assassino. Staremo a vedere, ma sicuro è che la sua indagine porterà a qualcosa, qualsiasi cosa. Due giornalisti però sono già morti in questo gioco, ce ne sarà un terzo? Difficile, ma non impossibile.
Non so voi, ma io ho trovato una costante glaciale in House of Cards. Cioè che se vieni a contatto con Frank e Claire Underwood non ne esci se non da morto, un po’ come con la mafia. Pensateci, queste puntate stanno riportando alla luce personaggi che sembravano ormai sepolti, eppure che per qualche motivo sono ancora legati al presidente e alla first lady. Anche se forse molti di loro avrebbero preferito andarsene dentro una cassa di pino. Dopo la carrellata degli episodi precedenti, in questi ritornano Janine Skorsky, altra giornalista dell’Herald prima e di Slugline poi, e soprattutto Tom Yates, lo scrittore assunto da Frank per il libro sulla America Works. Yates sembra poter avere un ruolo ancora più essenziale nella battaglia per la Casa Bianca, corteggiato da entrambe le coppie politiche come se potesse affossarne o consacrarne la campagna elettorale. Anche se l’ago della sua bilancia sembra pendere dalla parte degli Underwood.
Comunque, inutile ribadire quanto questa serie si confermi un capolavoro sotto ogni aspetto. E, se proprio devo dirla tutta, House of Cards mi sta facendo tifare un pochino anche per Conway, perché qualcosa mi dice che è fatto della stessa pasta di Frank. E proprio per questo sarà uno scontro indimenticabile.
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