Ma l’avete notato anche voi che ultimamente faccio articoli stra noiosi? O meglio, non noiosi, ma piuttosto con alte pretese. E quindi noiosi, perché poi inizio a tirarmela, a fare quello che sa le cose, il vero cinefilo intellettuale D.O.C. e cazzi e mazzi. Vi svelerò un segreto: io in realtà non sono così, sono timido e insicuro. Vi aspettavate la battuta alla Jessica Rabbit eh?! E invece no, troppo abusata per i miei gusti raffinati. Visto? L’ho fatto di nuovo, perché ho paura del giudizio. Però Jessica Rabbit l’ho citata lo stesso, così vi ho potuto mettere il link esterno e far contento WordPress: in poche parole, vi ho fottuti. A ‘sto punto perché non vi andate anche a leggere il nostro favoloso articolo su Chi ha incastrato Roger Rabbit? Già che siamo in tema…Dovevo fare il marchettaro io. Comunque oggi vi volevo parlare di M – Il mostro di Düsseldorf. Sempre che mi vogliate ancora bene.

Allora, il film è di Fritz Lang, ovvero un genio, nonché uno dei registi più importanti della storia del cinema. Ma non ditelo in giro. Inoltre M – Il mostro di Düsseldorf è così importante per il cinema perché è stato il primo film ad utilizzare il sonoro in modo intelligente, innovativo e sfruttandone le potenzialità espressive. In una parola: pionieristico. Ma cerchiamo di capire, in breve, il perché.
Una breve cronistoria
Come anche le mucche sanno (ma non solo, vi giuro che lo sanno anche gli eptapodi) il cinema, prima di poter utilizzare voci, rumori ambientali e quant’altro, era muto. In più considerate che inizialmente, proprio agli albori del cinema, quando ancora il cinema voleva la tetta, un film non era concepito per raccontare una storia, ma piuttosto per sorprendere, per mostrare allo spettatore immagini fantastiche, fuori dal comune.
Pensate all’arci noto esempio dei fratelli Lumière: alla prima proiezione del cinematografo, quando hanno proiettato L’arrivo di un treno alla stazione di La Chotat, alcune persone del pubblico sono scappate dalla sala perché temevano che il treno gli arrivasse addosso. Per dire.
Nella stessa serata i Lumière hanno proiettato anche Demolizione di un muro, che conteneva un trucchetto che praticamente ha dato vita al primo rewind della storia del cinema: in sostanza i fratelli hanno proiettato la pellicola ma, una volta terminata, hanno lasciato acceso il proiettore e riavvolto la pellicola, dando l’impressione che il muro si risollevasse. Molte persone alla visione di questa scena hanno accusato dei conati di vomito. Poi ci siamo noi che se guardiamo Cannibal Holocaust coi suoi sbudellamenti e sventramenti di animali vari rimaniamo impassibili. Che ci volete fare, so’ ragazzi.
Ma pensate anche a Georges Méliès, che ha basato tutto il suo cinema sullo stupore dei suoi spettatori, come un’estensione del vaudeville. Insomma, quello era il cosiddetto cinema delle attrazioni.

Dopo un po’ i cineasti hanno cominciato a porsi il problema del narrare una storia con le immagini, ma ovviamente il muto era un grosso ostacolo, perché impediva l’utilizzo di dialoghi. Tuttavia, piano piano, si sono trovate soluzioni sempre più ingegnose. Prendete a mo’ d’esempio un film come L’inferno del 1911, che attraverso l’utilizzo delle didascalie esplicative e appoggiandosi alla notorietà di un’opera immortale come la Divina commedia ha saputo raccontare una storia in maniera comprensibile. Il film, tra l’altro è anche il primo kolossal della storia del cinema. Cioè ma che chicche vi porto regà?! REGÀ!
Oppure prendete Lo studente di Praga del 1913, anch’esso film non ancora pienamente narrativo ma che giù iniziava ad utilizzare il montaggio per creare continuità tra le immagini.

Poi è arrivato Griffith, che praticamente è il papà del cinema, o perlomeno del cinema narrativo. Lo dice anche Fantozzi. L’importanza di Griffith sta nel fatto che egli ha ripreso delle tecniche inventate e sperimentate dalla cosiddetta Scuola di Brighton e ne ha fatto un utilizzo nuovo, in funzione narrativa. Queste fantomatiche tecniche non sono altro che il montaggio alternato, il campo-controcampo, il flashback, il primo piano e così via. Con Griffith, effettivamente, nasce il cinema narrativo: Nascita di una nazione è il primo film veramente narrativo della storia.
Poi Griffith era razzista, xenofobo e decisamente poco simpatico, ma in fondo, l’arte è l’arte.

Ok, ora, salto in avanti nel tempo. Nel 1927 esce Il cantante di jazz, considerato il primo film sonoro della storia del cinema. E lo è, per carità, ma diciamo che era anche un film che ci prova e ci riesce molto poco, anche a livello di botteghino.
Negli anni successivi, fino al 1931, tutti i cineasti si sono cimentati nella sperimentazione della nuova tecnica, con risultati altalenanti. Nel 1930 esce anche La canzone dell’amore, il primo film sonoro italiano. Tuttavia, lungo questo periodo, il sonoro più che come una possibilità era visto come un impedimento. Questo perché, come accennavo anche nel mio precedente articolo, girare in sonoro piuttosto che in muto comporta una differenza abissale a livello produttivo. Capiamo il perché.
Intanto c’è il discorso macchina da presa. Le prime mdp, ma in generale tutte quante fino al progresso delle nuove tecnologie, erano letteralmente dei macigni. Questo, banalmente, comporta che le riprese effettuate saranno per la maggior parte fisse e per la maggior parte in campo medio-lungo: voglio vedere voi a spostare uno Shaquille O’Neal e un Big Show messi insieme. Era una semplice questione logistica. Questo è un tema che tratta anche Holy Motors, se magari, così, ve lo volete vedere, bello bello, giuro prometto.
Col sonoro la situazione è peggiorata perché ora veniva registrato anche il suono, ma problema: quelle mdp facevano più casino di vostra nonna che dorme a bocca aperta. Quindi, a quel punto, le inquadrature andavano pensate anche in funzione di dove veniva posizionato l’apparecchio per registrare i suoni, cercando di non far cozzare le due cose.
Poi c’era da decidere se registrare il suono direttamente su pellicola, il che però toglieva spazio al fotogramma, oppure registrare il suono a parte e poi sincronizzarlo alla pellicola. Poi c’era il problema del doppiaggio e addirittura alcuni film vennero girati più volte, in lingue diverse, con attori diversi.
Cioè regà un casino. Poi è arrivato Fritz Lang.

Cioè non è che Lang sia arrivato dal nulla, era già un grande maestro del cinema e aveva girato capolavori del calibro de Il dottor Mabuse, I nibelunghi o Metropolis. Uno che non conta un cazzo, insomma.
Però quando poi Lang decise di girare M – Il mostro di Düsseldorf ha letteralmente cambiato tutto.
M – Il mostro di Düsseldorf
Non è che Lang si sia inventato nulla in particolare, un po’ come Griffith, ma ha saputo, come Griffith, utilizzare le nuove tecniche in maniera narrativa: il suono in M – Il mostro di Düsseldorf è fondamentale e senza di esso il film non potrebbe né funzionare né esistere.
Prendiamo l’esempio classico. La pellicola si apre su uno sfondo nero e, prima ancora che compaiano le immagini, udiamo un motivetto canticchiato da una bambina. Allora. A parte il fatto che tu, al tuo primo film sonoro, mi apri il film così, puoi avere il mio culo hai la mia stima eterna. Ma poi questo semplice ma efficacissimo espediente produce due conseguenze: crea tensione e quindi innesta il clima del film; crea una memoria sonora nello spettatore e gli consente di orientarsi negli spazi del girato.
Perché per dire, ci sono scene in cui ci troviamo in una casa e sentiamo il campanile rintoccare, quindi capiamo che quel campanile è abbastanza vicino alla casa da potersi sentire. Tutto ciò, pian pianino, ci crea in testa una geografia. So che sembrano banalità viste oggi, ma non lo sono.
Geniale poi il fatto che, prima di individuare l’assassino visivamente, quindi vedendolo in volto, lo identifichiamo sonoramente, perché egli ha il vizio di fischiettare un motivetto. Quindi noi ancora non sappiamo chi sia l’assassino, ma quando sentiremo di nuovo quel motivetto sapremo che ci sarà motivo di preoccuparsi. E questo, di nuovo, alimenta la tensione. Senza contare che Lang in una scena magistrale ci fa capire che è morta una bambina ma senza farcelo vedere. Io sono già in ginocchio e Gesù levati.

Ci sono poi in M – Il mostro di Düsseldorf situazioni autoironiche, come per esempio quando il capo della polizia, nel mezzo del marasma generale, grida qualcosa del tipo “smettete di fare tutto questo chiasso”, che è una palese imbeccate di Lang nei confronti di tutti quei registi che per utilizzare il sonoro inserivano una quantità infinita di suoni, al limite dell’aleatorio. Ma anche nei confronti di se stesso, in quanto in quel momento in quella scena c’era davvero molto casino.
E poi, l’elemento forse più importante di tutto M – Il mostro di Düsseldorf è dato dal fatto che tutto quanto il clima di tensione che si respira nel film è creato attraverso il suono. Nella scena in cui l’assassino si nasconde nel magazzino tutto quanto è muto e gli unici suoni che sentiamo sono il suo respiro affannoso e tutti quei rumori ambientali che permettono di capire se qualcuno si sta muovendo o se c’è un pericolo all’orizzonte.
E la chiave di M – Il mostro di Düsseldorf è un po’ questa: non è che siccome adesso posso usare i suoni vi tartasso le orecchie peggio della colonna sonora di Tenet, anzi: il segreto è l’essenziale. Lang inserisce solo quei suoni che sono necessari a creare il tessuto narrativo, tutti gli altri, consapevolmente, li elimina. Quindi mi dispiace, miei cari pervertiti, ma i suoni degli stupri minorili non li sentirete. FRITZ LANG PER UNA SOCIETÀ PIÙ GIUSTA ED EQUA.
Ah e poi scusate, ma io trovo incredibilmente geniale il fatto che la persona che identifica definitivamente l’assassino sia UN CIECO e di nuovo grazie al motivetto che l’assassino fischietta. Cioè questo è Lang che piglia per il culo il cinema e sta risemantizzando il valore delle immagini in rapporto al suono. L’identificazione non avviene, classicamente, attraverso la vista, ma attraverso l’udito. Perché questo è il primo vero film sonoro della storia del cinema.

Che poi ci sarebbe da dire che M – Il mostro di Düsseldorf ha un’importanza che va anche oltre l’utilizzo del sonoro. Infatti questo è il primo noir della storia del cinema, senza esserlo effettivamente, in quanto il genere non era ancora codificato. Però pensate all’approfondimento psicologico che viene svolto sull’assassino, pensate ai tagli di luce, alle ombre – certo, di matrice espressionista, ma pur sempre decisive nel noir – ai chiaroscuri che caratterizzano moralmente tutti i personaggi principali. Potrei andare avanti.
In più M – Il mostro di Düsseldorf racconta anche della paura del nazismo. Al di là delle scene di follia collettiva, in cui, una volta saputo che un assassino si aggira per le strade, gli abitanti letteralmente impazziscono e iniziano ad accusare il primo che capita al solo fine di individuare un capro espiatorio. Vi dice qualcosa la parola capro espiatorio? Io non ho detto ebrei, lo avete pensato voi.
Ma pensate anche alla scena del processo-farsa finale: un processo non legale e non presenziato dagli ufficiali della giustizia, ma condotto invece da un’organizzazione che, vedendo l’abbigliamento, ricorda molto le SS o simili. Il tutto salvato poi in extremis dall’arrivo della polizia e dal pronunciamento di un avvocato fedele servo della giustizia. Un grosso chapeau va rivolto a Peter Lorre, che interpreta l’assassino e ha messo in scena una delle recitazioni più intense della storia del cinema.
Senza contare il visionario finale: quell’ultima immagine e quell’ultima frase sono la rappresentazione della follia collettiva che degenererà nel nazismo vero e proprio.