Film

I Don’t Feel at Home in This World Anymore: un folle e adorabile gioiello sbeccato

Intendiamoci subito: non ho visto The End of the F***ing World, perciò ogni paragone fra le due opere non sarà possibile e/o incentivato. Accettate questo e per cinque minuti della vostra vita saremo migliori amici. Forse. Tanto avete già letto il voto: I Don’t Feel at Home in This World Anymore mi è piaciuto, e pure parecchio.

L’ho approcciato come approccio ogni film Sundance: cercando di capire quale “Coefficiente Sundance” avrà la pellicola. Tipo su una scala da zero a Swiss Army Man e Like Crazy, per intenderci. Oh, filmoni entrambi, non fraintendetemi. È solo che il bollino Sundance spesso e volentieri fa partire prevenuti se non si è amanti di quel “genere” e, beh, I Don’t Feel at Home in This World Anymore piacerebbe anche ai detrattori del festival tirato su da Robert Redford.

Quindi andiamo subito a vedere perché consiglierei a chiunque questo piccolo folle gioiello sbeccato e, udite udite, incapperete in spoilerz sul film, parola d’onore.

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Non stiamo tanto a soffermarci sulla trama: a Ruth (Melanie Lynskey) entrano in casa i ladri, e lei dovrà fare i conti con questa cosa. Semplice, essenziale. Solo che Ruth è scoglionata dalla vita, si rende conto, giorno dopo giorno, che il mondo è una merda e che la sua esistenza si trascina stanca tra il lavoro e le poche amicizie. Insomma, lei è uno dei tanti 0 e 1 di un codice binario che non lascia spazio agli altri numeri. La cosa peggiore? Ne è assuefatta.

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Il furto in casa sua, però, le dà uno scossone, letteralmente: è come se la prendesse per le spalle urlandole in faccia “oh, porcaccio Anubi, vuoi almeno provare a vivere?”. Perché questo mondo infame, nel quale facciamo finta di avere un ruolo, ogni tanto ti lancia il momento “sink or swim”. E Ruth si è proprio rotta le ovaie. Di subire, di essere passiva, di farsi calpestare. Un po’ come Gerard Butler in Giustizia privata, ma senza la capacità di sezionare una persona tenendola in vita abbastanza da farla soffrire per ogni estremità strappata.

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I Don’t Feel at Home in This World Anymore ti prende alla larga, consegnandoti una Ruth sempre in crescita man mano che le sue indagini avanzano e un Elijah Wood che, beh, dai, è semplicemente adorabile. Il suo Tony è proprio il personaggio da Sundance: folle, altruista, amorevole, dallo sbrocco facile ma sempre per un bene superiore. Sarei stato ore a guardarlo estrarre shuriken dalle pareti. Senza riuscirci, ovviamente. Il mix tra i due è perfetto.

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Però, e questo il film non lo dimentica mai, nonostante il tono molto sopra le righe (leggi: Sundance) parla di vita vera. Perché se cerchi di rintracciare un ladro da sola, con una specie di Naruto wannabe che ascolta i Judas Priest, non è che puoi pensare che andrà tutto bene. Oddio, in realtà non puoi neanche pensare che andrà tutto così male.

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Perché devo essere sincero con voi: I Don’t Feel at Home in This World Anymore mi stava piacendo per tanti motivi, tra cui anche la regia dell’esordiente Macon Blair (che se l’è pure scritto): consapevolmente pulita, per dargli una definizione concisa. Dicevo, mi stava piacendo ed ero entrato bene in quel mood, ma sentivo la mancanza di qualcosa. Di un momento che mi facesse dire “apperò!” o “belin!” (così mi riprendo la Liguria). Volevo una spinta sull’acceleratore, un reality check che tutti i personaggi avrebbero dovuto incassare, perché la vita è sempre lì dietro l’angolo, con un impermeabile e il coltello a serramanico in tasca.

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E il caro Macon Blair ha deciso di accontentarmi. Ridimensionata e contestualizzata per questo film, I Don’t Feel at Home in This World Anymore ha la sua scena della chiesa di Kingsman. Lo showdown dentro la casa del riccone è uno stallo alla messicana in salsa Sundance, un petardo che ti esplode in mano perché sei troppo pirla e l’hai lanciato tardi. Il sangue scorre a fiumi, la follia anche, e pure il vomito. Perché una persona normale, trovandosi lì in mezzo e vedendo tutto quello sbrodolo di roba rossa, è molto probabile che cacci l’anima dalla gola. Realtà e pazzia mischiate alla grande. Senza sconti a nessuno.

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E poi, scusate, volete dirmi che il gioco del gatto col topo post mattatoio in casa non vi ha ricordato il finale di Il mastino dei Baskerville? Con, se proprio vogliamo aggiungerlo, un omaggio a Kill Bill: Vol. 2 e i suoi serpenti birichini. Perché Macon Blair sa quello che fa e, nonostante si veda sia alla sua opera prima (ma averne di opere prime così), ci mette tutta la sua passione e tutto il suo cuore. Forse troppo, forse Tony alla fine poteva morire davvero, ma questi sono giudizi puramente soggettivi: dopo tutto il sangue e la sfiga che ti prende a calci, era anche giusto che a Ruth venisse data un’ultima speranza per ricominciare davvero (e, quindi, noi con lei). Mi avevi quasi fregato però, soprattutto con il sognononsogno finale. Bravo Macon, ti tengo d’occhio.

Perciò, che dire ancora? Brava Netflix, bravi tutti. Vado a lucidare la katana.

Edoardo Ferrarese

Folgorato sul Viale del Tramonto da Charles Foster Kane. Bene, ora che vi ho fatto vedere quanto ne so di cinema e vi starò già sulle balle, passiamo alle cagate: classe 1992, fagocito libri da quando sono nato. Con i film il feeling è più recente, ma non posso farne a meno, un po' come con la birra. Scrivere è l'unica cosa che so e amo fare. (Beh, poteva andare peggio. Poteva piovere).
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