Film

I Re del Sole – Un’Eneide precolombiana

Come già dissi a proposito di Schegge di follia, esistono film che, a prescindere dal loro valore artistico, finiscono inevitabilmente con il rimanere marchiati a fuoco nella tua testa per tutta una serie di motivi. In questa categoria rientra anche I Re del Sole, un semisconosciuto kolossal storico-avventuroso del 1963, diretto da J. Lee Thompson, che i più ricorderanno come regista de I cannoni di Navarone. La particolarità di questo film è l’aver cinematograficamente resuscitato la poco sfruttata e fascinosissima civiltà Maya, con oltre quarant’anni di anticipo su quel capolavoro che è Apocalypto.

Sicuramente a I Re del Sole ho assegnato una votazione più alta di quanto meriterebbe, e se ci mettiamo a fare paragoni con il film di Gibson, questo “storicone” (parleremo tra poco di quelle virgolette) ne esce ridotto in particelle subatomiche. Ma al netto di tutte le sue mille ingenuità, figlie perlopiù dell’epoca in qui è stato realizzato, è da considerarsi un brutto film? Personalmente non lo credo, anche se ammetto che allo spettatore sia richiesta una gran forza di volontà per accettare certe scelte estetiche e narrative, improponibili al giorno d’oggi.

I Re del Sole si basa su premesse molto intriganti e narra l’epopea di Balam (George Chakiris), un giovane re Maya costretto a fuggire dalla città di Chichen Itza a seguito dell’invasione di un rivale meglio armato. Spintosi al largo del Golfo del Messico, il sovrano sbarca nei futuri Stati Uniti, costruendo un nuovo insediamento urbano nei pressi della tribù pellerossa di Falco Nero (Yul Brynner). La tensione bellicosa tra due popoli così diversi è dietro l’angolo, specie quando entrambi i leader si invaghiscono della principessa Maya Ixchel (Shirley Anne Field).

L’elemento più riuscito di I Re del Sole è senza ombra di dubbio l’interpretazione di Yul Brynner. Sguardo predatorio e carisma felino che “Jason Momoa levati dalla mia vista”, l’attore russo è il catalizzatore di tutti i momenti più avvincenti del film, perfettamente credibile come eroico guerriero pellerossa. Già bellissimo Ramses in I dieci comandamenti e pistolero dalla mira infallibile in I magnifici sette, a Brynner bastano un piano americano in cui osserva la costruzione della piramide dalla cima di un albero, o una scena in interni particolarmente artistica che lo vede avvolto da penombre caravaggesche, per regalare l’ennesimo ruolo memorabile e strappare il titolo di protagonista all’impetuoso George Chakiris.

Girato nello Yucatan con appena quattro milioni di dollari del 1963, I Re del Sole non riesce a celare totalmente la sua natura di prodotto a basso costo (alcuni costumi e soprattutto le armi appaiono di second’ordine addirittura per una produzione dell’epoca), ma l’accesissima fotografia e una regia disinvolta tra primi piani, campi lunghissimi e movimenti di macchina molto particolari danno dimensione concreta all’avventura pura, quella fatta di eroiche imprese, personaggi scolpiti nel granito, scenari esotici e contese amorose che rimandano davvero all’epica di Omero e Virgilio (fateci caso, la trama quasi è la stessa dell’Eneide), anch’essa spesso ingenua ma travolgente. Le pur limitate scenografie sono impressionanti, così come le affollate battaglie tra tribù risultano di buon intrattenimento.

A curare la colonna sonora c’è un celeberrimo professionista del calibro di Elmer Bernstein. In questa occasione, il lavoro del compositore non è prodigo di motivi riconoscibili e memorabili come quello di I magnifici sette, ma è ben inserita all’interno del film per influenzare il senso di avventura e le scene di combattimento. L’impatto musicale è di ottima fattura, i ritmi incalzanti delle pagine più movimentate (strepitoso quello della fuga in mare) sanno lasciare anche spazio all’intimità e persino alla tensione erotica. Insomma, una soundtrack dal range emotivo dinamico con le palle quadrate.

I Re del Sole soffre di tutti i difetti tipici degli storiconi (anche più famosi e apprezzati) di quegli anni: è dunque possibile sorridere di fronte agli interpreti caucasici che interpretano Maya e pellerossa sfoggiando una lieve abbronzatura venuta male (la protagonista Anne Field somiglia pure a Liz Taylor di Cleopatra!), sul fatto che tutti questi popoli parlino inglese e si comprendino perfettamente, e sui pretesti fin troppo semplicistici che mettono in moto le vicende. Sebbene dal punto di vista dell’accuratezza storica siamo prossimi al disastro assoluto, la vicenda viene sintonizzata su un interessante discorso contro il fanatismo religioso e il sacrificio umano. Cos’è che davvero una divinità esige come tributo dall’essere umano? La morte e la violenza possono realmente avvicinare l’uomo alla sacralità? Le risposte ci vengono date da un discorso finale sicuramente retorico e altisonante, il cui messaggio però è in grado di scavalcare secoli e geografie.

L’autenticità dei veri scenari in cui si sono svolti i “fatti”, la cinematografia ispirata e una certa sostanza a livello tematico compensano ai miei occhi i tanti difetti di un film che, ripeto, vuole essere avventura avvincente e ben confezionata. Lo scopo si può dire raggiunto, e la durata inferiore alle due ore contribuisce a uno spettacolo dal sapore molto classico, dotato di un ritmo corposo e mai ridondante. Che altro potrei aggiungere? Guardatelo e divertitevi. Poi potete anche prendere in giro le sue impennate di kitsch, ma vi assicuro che non vi annoierete nemmeno un secondo.

Riccardo Antoniazzi

Classe 1996. Studente di lettere moderne a tempo perso con il gusto per tutto ciò che è macabro. Tenta di trasformare la sua passione per la scrittura e per il cinema in professione.
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