Film

I sette samurai: un film epico di Kurosawa

Come sono finito a guardare I sette samurai? A voi capitano delle sere in cui pensate: “Perché non mettersi a guardare un film giapponese del ’54 in bianco e nero di tre ore e un quarto“?
Se la risposta è no, sono anch’io del vostro club. Ma qualche giorno fa, dopo aver visto quell’aborto mancato che è il remake de I magnifici 7, si è risvegliata in me l’assopita curiosità di guardare il film che ha ispirato una delle pietre miliari della mia infanzia. Perché senza la (da tutti considerata) opera magna di Akira Kurosawa chiamata I sette samurai, da bambino non avrei potuto godere per centinaia di volte del western del ’60 targato John Sturges. Conoscendo a memoria tutte le battute più epiche di “Chris” e dei suoi sei compagni (non può non salirvi l’adrenalina alla frase “Noi trattiamo piombo”), ho deciso che era giunta l’ora di conoscere i papà giapponesi dei miei amati pistoleri.
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Come ultima premessa, vi dico che non sono un fan sfegatato del Paese del Sol Levante e della sua cultura: la maggior parte delle volte che i miei compari mi propongono scappatelle al ristorante giapponese le mie budella cominciano a rivoltarsi, e le poche volte che mi ci ritrovo mio malgrado sono più a disagio di un maghrebino alla festa della Lega. Da amante della fumettistica italiana, non mi piacciono nemmeno i manga. Non so se tutto ciò mi ha portato ad essere più obiettivo nei confronti del film oppure mi abbia impedito di apprezzarlo appieno. A voi l’ardua sentenza.
Come è ovvio, la trama de I sette samurai non si discosta da quella dei due parenti d’oltreoceano: un villaggio di innocui e pavidissimi contadini è minacciato da una banda di una quarantina di predoni assetati di sangue, riso e vergini. Contro il parere di buona parte dei compaesani, un paio di cazzuti giapponesini decidono che è ora di dire basta e di trovare qualcuno che li aiuti a eliminare il problema delle razzie una volta per tutte. E a differenza di quanto accade nelle opere gemelle, Kurosawa non darà un’identità agli antagonisti prima della resa dei conti finale. I briganti non saranno altro che un’ombra indistinta che incombe per i primi due terzi del film.
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Fin dai primi minuti si fanno sentire (non necessariamente in maniera negativa) la distanza spaziale e temporale dell’opera. Prima di tutto si nota l’estrema lentezza di alcune scene. Essendo un amatore di opere non propriamente celeri come Il giorno più lungo e Barry Lyndon, non mi è pesata particolarmente, ma con tutta probabilità la maggior parte delle persone dovrebbero resistere a forti impulsi di calarsi qualche potentissima droga dopo la prima metà del film. Anche la recitazione si discosta molto dai canoni a cui Hollywood ci ha abituati, assumendo uno stile che si potrebbe più associare al teatro.
Proseguendo con la trama, conosciamo uno ad uno i guerrieri che si fanno carico della difesa del villaggio. Ad aiutare i contadini nella ricerca e nella selezione, sarà il samurai Kambei Shimada, interpretato dal carismatico Takashi Shimura. Ed è proprio qui che abbiamo il maggiore punto di forza: nella caratterizzazione dei personaggi, in particolare in quella dei Sette. Rispetto alle creature da barzelletta che troviamo nell’ultimo remake (ci sono un sudista, un giapponese ed un indiano fuori da un night club…), i nostri amici dalla pelle gialla hanno tutti un’identità molto forte. E la psiche umana è un tema centrale de I sette samurai: l’altruismo sembra l’ultimo dei sentimenti che spinge questi ronin (samurai senza padrone) ad accettare la proposta dei contadini. Ognuno di loro è spinto prima di tutto da un bisogno di riscatto interiore, che sia per errori passati o per travagli interiori.
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Il secondo accento è posto sulle classi che dividono gli essere umani: servi e padroni, lupi e pecore. Nemmeno i numerosi giorni trascorsi insieme e l’esperienza della battaglia riuscirà a diminuire la profonda differenza tra protetti e protettori. Lo vediamo fin dalla tiepida accoglienza riservata all’arrivo dei sette salvatori fino alla scena di chiusura.
L’opera prosegue nella parte centrale con l’addestramento dei contadini in puro stile sergente istruttore Hartman. Nell’ultima ora giunge infine la tanto agognata battaglia finale, un epico e sanguinoso scontro sotto un martellante diluvio.
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Tirate le somme, il film è indubbiamente una buona opera, la cui lontananza ci impedisce però di apprezzarlo al cento per cento. Il maggiore punto debole sono forse i dialoghi, alcune volte non troppo brillanti. La colpa di questo potrebbe però ricadere sul doppiaggio. La maggior parte dei punti che guadagna l’opera sono da attribuire agli interpreti dei protagonisti e alla godibilissima battaglia finale.
Anche se il giudizio può non essere ottimo, l’eredità che ci ha lasciato I sette samurai lo insigne senza ombra di dubbio di tutti gli onori riservati ai grandi capolavori. Non sono infatti solamente i due film western ad essersi ispirati più o meno in parte a questa pellicola: basti pensare al romanzo I lupi del Calla della serie La torre nera di Stephen King, che senza Kurosawa non avrebbe visto la luce.

Edoardo Canepa

Genovese classe '93, di giorno è un timido e serioso bancario, di notte un nerd assatanato di serie tv, libri, film e videogiochi. Vive in città ma è campagnolo dentro. Adora alla follia Stephen King, la birra e le tartarughe.
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