
I Soliti Sospetti sono cinque e sono indimenticabili
I Soliti Sospetti: la più grande beffa che il Diavolo (e il cinema) abbiano mai fatto.
I Soliti Sospetti non è un thriller come gli altri. E’ Il Thriller. Un film che, in coppia con Seven, uscito nello stesso anno (1995), ha definito Kevin Spacey e segnato l’asticella per tutti i film neri successivi. Cento minuti senza mai tirare il fiato sono difficili da battere, anche dopo ventuno anni.
La trama è semplice: cinque bastardi pregiudicati vengono costretti dalla polizia a fare un confronto all’americana. Le scuse per tirarli dentro non sono niente di nuovo, eppure a tutti continuano a chiedere la stessa cosa: chi ha svaligiato il furgone pieno di fucili qualche giorno prima? Nessuno sembra sapere niente, ma non ci si può fidare, in fondo si tratta di cinque pessimi figuri, dei soliti sospetti: l’ex poliziotto corrotto Dean Keaton (Gabriel Byrne), il ladruncolo “Verbal” Kint (Spacey appunto, storpio e chiacchierone, interpretazione incredibile che gli ha valso l’Oscar), lo scassinatore Todd Hockney e i ricettatori Fenster e MacManus (Benicio del Toro e Stephen Baldwin). Mentre sono in attesa in prigione, decidono di mettere in atto un colpo ai danni del corpo di polizia, rapinando dei poliziotti che trasportano illegalmente pietre preziose. Ma una cosa tira l’altra e i cinque finiscono invischiati in una brutta storia. Perchè volente o nolente, il gruppo di ladri ha pestato i piedi, con lavori precedenti, al famigerato Keyser Söze, “l’uomo nero” dei criminali, e l’Avvocato Kobayashi per suo conto sta per fare il punto della situazione.
Keaton diceva sempre: “Io non credo in Dio, ma ho paura di lui”. Be’, io credo in Dio… e l’unica cosa di cui ho paura è Keyser Söze.
Devono a Söze un bel risarcimento danni, e l’unico modo per farlo è ordire un altro colpo.
E qui inizia il bello. Perché noi del pubblico scopriamo tutto grazie al lungo flashback di Verbal Kint che, seduto nell’ufficio del Detective Kujan, cerca di spiegare com’è andato il famoso colpo per Söze, l’ultimo, il più difficile, andato in fumo e dal quale è uscito vivo solo lui.
Il thriller vero e proprio è dunque una lunga seduta di psicanalisi, uno scontro/incontro tra i due superstiti di due fazioni diverse ma incredibilmente uniti dal fato. Il ladro e il poliziotto che attraverso le prove e il racconto cercano di venire a capo del dilemma. Chi è Keyser Söze? E’ davvero così spietato? Nessuno l’ha mai visto eppure c’è gente morirebbe per lui, e gente che è morta. Come fa ad avere le mani in pasta dappertutto? Ad avere tutte quelle prove sul gruppo di ladri? Come mai il colpo è andato male? E, ultimo ma non meno importante, come mai ha deciso di risparmiare proprio Verbal Kint?
Pensate di poter prendere Keyser Söze? Che uno come lui arrivi così vicino ad essere preso e rischi ancora? Se venisse fuori sarebbe solo per uccidermi. Dopodiché credo che non ne sentirete più parlare.
I soliti sospetti cadono per tutto il film prima su uno e poi sull’altro dei personaggi, in un gioco al gatto e il topo tra film e spettatori. Niente è come sembra, fino alla fine. E anche alla fine c’è spazio per un sussulto, un fremito inaspettato.
Non è tanto la storia a rendere questo film IL FILM, quanto il modo in cui è raccontato. Bryan Singer orchestra magistralmente una grandissima presa in giro ai danni del pubblico, portandoci dove vuole lui fino all’ultima scena, per poi mostrarci qual è davvero la realtà – inaspettata – dei fatti. E in questo scenario, in questo teatro dei burattini, Singer/Söze manovra un superbo Kevin Spacey, all’apice della sua bravura. Spacey ha sempre collezionato ruoli incredibili uno dopo l’altro (Seven, American Beauty, The Big Kahuna, House of Cards) eppure con il suo Verbal Kint tocca momenti da vero brivido.
Qui Spacey si trasforma…letteralmente, e completa la magia con una battuta finale che è tra le migliori del mondo:
La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste, e come niente… sparisce.