Film

I tre volti della paura: Mario Bava si fa in tre per un horror da manuale

Siete alla disperata ricerca di un horror con cui passare le serate autunnali ma vi siete già giocati clown alieni, mutazioni genetiche, mostriciattoli più natalizi che novembrini, Disney atipici e rivisitazioni dei classici e meno classici della letteratura? Non temete, potete sempre darvi arie da cinefili e recuperare un cult degli Anni Sessanta, per di più nostrano che fa sempre scena. Per la precisione, il film in questione risale al 1963, risponde al titolo de I tre volti della paura, anche se oltreoceano è stato distribuito con il molto più evocativo Black Sabbath, ed è frutto nientemeno che del genio di Mario Bava: quello che ha ispirato Tarantino e Polanski, per intenderci, e ovviamente Dario Argento, e che qui, sempre per sembrare un po’ più raffinato, ha deciso di chiamarsi John Old.

I tre volti della paura mette in scena, per l’appunto, tre modi diversi di intendere il terrore, articolandoli in tre diversi episodi: una cosa che all’epoca piaceva parecchio, e che doveva sembrare assai originale – anche se, come vedremo, è solo uno dei mille trucchi con cui Bava ci incolla allo schermo. E tutti e tre sono tratti da racconti di letteratura “alta”, sempre per via che citando questo film potrete tirarvela un sacco: Maupassant, Tolstoj e Cechov, nell’ordine.

Nel primo, Il telefono, vediamo una bellissima Rosy (Michèle Mercier) aggirarsi da sola nella sua casa, che per inciso è un piccolo capolavoro di arredamento dell’epoca, quand’ecco che il telefono squilla: una voce minacciosa le dice che la vede, la osserva, la brama, e entro l’alba la farà fuori. Rosy a quel punto non è tranquillissima e finisce per chiamare Mary (Lydia Alfonsi), sua vecchia fiamma, per tenerle compagnia – e così anche il côté piccante è sistemato. Già, ma chi è davvero Mary? E Frank, precedente e violento fidanzato di Rosy, è davvero evaso di prigione? Un giallo classico e nemmeno troppo originale, ma sfido ad alzarvi dalla poltrona anche solo per un minuto. E vi assicuro, la prossima volta che suonerà il telefono non vi sentirete affatto sereni.

Sulle lacrime di Rosy si chiude il primo episodio e si passa immediatamente a I Wurdalak, ovvero un perfetto minestrone di fantasy, Est Europa e vampiri. Il nobile russo Vladimir (Mark Damon) sta allegramente cavalcando per le steppe, quand’ecco che inciampa in un cadavere con un misterioso pugnale intarsiato conficcato nella schiena. Per non saper né leggere né scrivere, se lo carica in sella e lo porta alla casa più vicina, dove lo attende un’allegra famigliola, e dove tra gli altri spicca naturalmente la biondissima e bellissima Sdenka (Susy Andersen). I locali gli spiegano che sono in attesa di nonno Gorca, partito cinque giorni prima per uccidere un wurdalak turco, alias un vampiro. Indovinate un po’? Nonno Gorca compare proprio in quel momento, e chicca delle chicche, ha le fattezze del mitico Boris Karloff, quello che ha prestato la faccia ad ogni Frankenstein, mummia e mostro messo su celluloide in quel periodo. Tenete a mente il suo nome, perché con lui non abbiamo ancora finito. Ah, ovviamente Gorca è diventato lui stesso un vampiro, e dunque morte e zombie dappertutto eccetera eccetera. Forse il meno riuscito de I tre volti della paura, ma appunto: c’è Boris.

Passiamo ora all’ultimo e migliore episodio, La goccia d’acqua: Helen (Jacqueline Pierreux), che nella vita svolge l’ameno mestiere di ricomporre le salme dei defunti, viene chiamata al capezzale di una medium passata a miglior vita durante una seduta spiritica, morta con un’espressione non proprio gioiosa stampata sul volto. La medium ha al dito un anello che vale quanto l’intera casa di Helen, Helen decide di rubarlo, Helen non sa che cosa la aspetta. Mosche ovunque, rubinetti che sgocciolano, impianti elettrici che saltano e un finale a metà tra quanto di più orrorifico si possa immaginare e Star Wars. Ah, ovviamente il ciclo di morte e disperazione mica si chiude con Helen.

Questo, in poche parole, è I tre volti della paura, e già così basterebbe per chiudersi in casa con una riserva di birre e salatini e non aprire nemmeno a vostra madre. Già, ma Boris, il fenomenale Boris Karloff che avremmo dovuto ricordarci per tutto il film? Ebbene, proprio qui sta ciò che rende I tre volti della paura un capolavoro: Boris prima introduce agli spettatori ciò che stanno per vedere, con colori e atmosfere degni di Lynch, ma con un tocco di umorismo in più, e poi, gran finale, torna da noi a cavallo, gioca a fare il vampiro e in un minuto, complici cameramen e effetti speciali, ci regala uno dei più belli omaggi al cinema che ci siano in circolazione. “Sognatemi”, conclude. E del resto, come si potrebbe fare altrimenti?

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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