È il 2015. Netflix è appena nato e il suo catalogo è più povero del mio conto in banca (di rilevante c’è solo House of Cards). Addirittura, deve ancora approdare in molti Paesi europei, Italia compresa. All’improvviso però il colosso dello streaming stupisce tutti, producendo con la Marvel una serie su Daredevil. Si tratta di una responsabilità enorme: con il ricordo del poco riuscito film del 2003 con Ben Affleck ancora vivido, il diavolo di Hell’s Kitchen ha bisogno di un rilancio davvero forte. A sorpresa, lo show con Charlie Cox si rivela non solo una delle migliori serie supereroistiche di sempre, ma un’opera di altissima qualità a prescindere dal genere.
Il successo di pubblico e critica convince Netflix a realizzare, oltre alla scontata seconda stagione, altri show targati Marvel, tutti legati tra loro. È l’inizio di un microuniverso legato al Marvel Cinematic Universe, ma allo stesso tempo parallelo, dai toni più oscuri, adulti e violenti (in netta controtendenza rispetto alla giocosità delle opere cinematografiche) e incentrato sui “supereroi urbani” di New York. Ne faranno parte (oltre al citato Daredevil) Jessica Jones, Luke Cage, Iron Fist e The Punisher, a cui si aggiunge il mega-crossover The Defenders.
Sulle prime il progetto gode di un buon riscontro, con tanti che ne lodano la maturità e la qualità generale. Ma già a partire da Luke Cage qualcosa si incrina. La serie con Mike Colter non convince tutti, mentre il successivo Iron Fist viene additato persino come uno dei peggiori show a tema supereroi di sempre. The Defenders dovrebbe mettere una pezza, ma la miniserie non lascia il segno. Le cose non migliorano andando avanti: ad esclusione di Daredevil, tutte le stagioni che compongono la “Fase Due” dell’universo Marvel-Netflix vengono accolte con sufficienza (quando va bene). Ciò porta alla cancellazione prematura dei vari show.
L’ambizioso Defenderverse – possiamo chiamarlo così? – si conclude quindi a giugno 2019 con la terza stagione di Jessica Jones, lasciando irrisolti molti archi narrativi (clamoroso il cliffhanger del finale di Iron Fist, destinato a rimanere insoluto). A questo punto è lecito chiedersi: cosa è andato storto? Com’è possibile che un progetto partito così bene si sia potuto arenare così? A seguire proverò a dare una spiegazione a quanto accaduto, cercando di capire dove le serie Marvel-Netflix, al di là degli specifici difetti, hanno sbagliato.
E’ previsto che si vedano supereroi nei vostri show di supereroi?
Ben prima della seconda stagione di Titans, già il Defenderverse esitava a mostrare i propri supereroi nell’atto di fare… be’, cose da supereroi. Non fraintendetemi, i momenti in cui i protagonisti si ritrovano a combattere contro i cattivi non mancano. Eppure raramente queste azioni sono dettate dal loro ruolo di vigilanti. Al contrario, la routine da supereroi viene messa ai margini per lasciare spazio piuttosto ai conflitti personali dei personaggi principali.
In parole povere, ogni stagione di qualunque serie è dedicata esclusivamente a non più di una o due minacce da affrontare, riguardanti il più delle volte la sfera privata dell’eroe. Così Jessica Jones (Krysten Ritter) si scontra con l’uomo che la controllava mentalmente, con sua madre e con un assassino psicopatico che la prende di mira; Iron Fist (Finn Jones) con i membri della Mano e il suo vecchio compagno d’armi di K’un-L’un; Punisher (Jon Bernthal) con le persone responsabili della morte della sua famiglia. E la lotta alla criminalità comune? Un orpello messo a inizio e/o a fine stagione giusto per far vedere che comunque il loro lavoro lo fanno.
Sia chiaro, non c’è nessun problema a concentrarsi su nemici che tocchino più da vicino i protagonisti, ma ignorare le minacce secondarie e indirette (i cosiddetti “villain della settimana”) significa dimenticare ciò che rende tale qualsiasi (super)eroe: proteggere gli altri prima che se stessi. Privati di questo aspetto, gli show Marvel-Netflix sono solo delle storie di persone con poteri che combattono per i propri interessi.
Non aiuta il fatto che, Daredevil a parte, nessuno indossi un costume. Se Jessica Jones e Luke Cage non fanno testo (la prima non è formalmente una supereroina e il secondo è un vigilante di strada), Danny Rand indossa la sua iconica maschera gialla solo nei flashback, mentre tra un po’ bisogna pagare per vedere Frank Castle con il giubbotto col teschio. Capisco il desiderio di maggior realismo, ma che senso ha adattare dei fumetti se poi si ignorano i segni distintivi dei loro protagonisti?
Sei così dark. Sicuro di non provenire dall’universo DC?
Se inizialmente il tono cupo e adulto è stato uno degli aspetti più apprezzati dell’universo Marvel-Netflix, con il passare del tempo è finito per diventare un elemento ingombrante e non sempre necessario. Andava bene per Daredevil. Era accettabile in Jessica Jones. Era decisamente adatto per The Punisher. Ma già in Luke Cage e Iron Fist risultava abbastanza forzato.
A onor del vero, questi ultimi due show non sono totalmente privi di ironia, specialmente quello dedicato al protettore di Harlem. Ciononostante, i momenti di leggerezza sono troppo sporadici e non riescono a sovrastare un approccio generale troppo serioso e condito da improvvisi (ed eccessivi) sbalzi di violenza. Nessuno ha chiesto che Netflix replicasse lo stile da commedia del MCU, però era davvero necessario arrivare a tali estremi?
La dura verità che molti faticano a digerire è che il Defenderverse è ammantato da una pretenziosità che stona con la sua natura di prodotto derivato da fumetti supereroistici. Gli autori probabilmente pensavano che bastasse puntare sul dark per realizzare delle serie mature e intelligenti. Ma c’è un solo Christopher Nolan, e decidendo di proseguire su questa strada non hanno fatto altro che ottenere ciò che viene sempre rinfacciato al DCEU: tanto fumo e niente arrosto.
Tutte le strade conducono a Hell’s Kitchen
Un altro problema, legato per certi versi al precedente, è quello della scarsa varietà: di fatto le serie del Defenderverse sono tutte uguali. E dire che sulla carta ciascuna dovrebbe avere il proprio stile: Daredevil è un noir ibridato con il thriller giudiziario; Jessica Jones un giallo hard boiled al femminile; Luke Cage un omaggio alla blaxploitation; Iron Fist un “film” di arti marziali; infine The Punisher è l’erede delle pellicole di destra degli anni ’70-’80 incentrate sulla figura del giustiziere (roba tipo Death Wish).
Eppure, ogni volta – sarà per una questione di ambientazione o di fotografia – l’impressione è di vedere una semplice variante del medesimo show. Più precisamente il modello di riferimento è Daredevil, non a caso il prodotto migliore (diciamo pure l’unico veramente riuscito) dell’universo Marvel-Netflix. È sconfortante vedere le altre serie affannarsi a replicare l’estetica e le atmosfere del capostipite, quando sarebbe molto più vantaggioso distanziarsi e proporre qualcosa di più originale.
Certo, qualcuno potrebbe obbiettare che anche i film del MCU sono parecchio simili tra loro. Tuttavia pure in quel franchise è possibile trovare differenze tonali: l’epica shakespeariana di Thor è molto diversa dalla spy story di Captain America: The Winter Soldier, così come la space opera di Guardiani della Galassia ha poco in comune con la commedia adolescenziale di Spider-Man: Homecoming.
Il miglior esempio oppositivo resta però quello di un altro universo seriale, il cosiddetto Arrowverse della DC. Nonostante condividano autori, produttori e cast, ed abbiano più crossover rispetto al Defenderverse, gli show supereroistici firmati CW godono ciascuno di una propria identità: Arrow è l’action serio e cupo; Flash l’avventura leggera in stile Silver Age; Supergirl il manifesto femminista dalle implicazioni sociali; Legends of Tomorrow la fantascienza folle e divertente degli anni ’80. Possiamo criticarlo per essere troppo adolescenziale, ma l’Arrowverse ha indubbiamente saputo proporre un’offerta molto più variegata di quella di Netflix.
Marvel Cinematic Universe: sì o no?
L’incidente. Così viene chiamata la battaglia di New York di The Avengers nella prima stagione di Daredevil. Un modo carino, per quanto vago, di ricordarci che gli eventi del microuniverso Netflix sono comunque ambientati all’interno del ben più vasto MCU. Ma è davvero così? Nonostante qualche sporadico easter egg – filmati dei Vendicatori venduti nelle bancarelle, giocattoli di Captain America & Co., accenni a Sokovia e alla superprigione RAFT, ecc. – non si ha proprio l’impressione che il mondo dei Defenders coesista con quello dei colleghi cinematografici.
In effetti nessuno degli eventi dei film post-Fase 1 sembra avere ripercussioni significative sulle vicende degli show, e lo stesso vale al contrario. Un esempio? Dov’erano Daredevil, Luke Cage e Iron Fist quando Fauce d’Ebano attaccava la Grande Mela in Infinity War? O quando si aprivano i portali in Endgame? Che poi in realtà, per capire quanto poco siano interconnessi mondo filmico e seriale, è sufficiente accorgersi di un piccolo particolare: quando negli show viene inquadrata la skyline di New York, mai una volta è possibile scorgere la Avengers Tower!
Ora, tutto ciò non è necessariamente un difetto di per sé. La qualità intrinseca delle serie è ben più importante dei collegamenti con il MCU. È anche vero però che il senso degli universi condivisi è, appunto, la condivisione. Per quanto possa capire la volontà di Netflix di andare per la propria strada, evitando i legami troppo diretti con i film, scegliere di non far incontrare i due mondi è stato un errore. Non solo perché sarebbe stato bello per i fan vedere gli eroi del piccolo schermo interagire con gli Avengers, ma perché così facendo è venuta meno parte della coerenza narrativa di questo elaborato universo.
Lunghezza e lentezza
Tra i vari problemi che affliggono il Defenderverse, uno dei più evidenti e discussi è quello della lunghezza delle stagioni. Può sembrare strano che i canonici 13 episodi siano considerati troppi, quando molte serie commerciali arrivano addirittura al doppio, eppure questa è l’opinione comune. Il motivo è la sproporzione tra il numero delle puntate e i contenuti delle singole stagioni.
Mi spiego meglio. Le serie Marvel-Netflix sono scritte in modo che ogni ciclo di episodi copra un determinato arco narrativo. Solo che il più delle volte quest’arco è talmente semplice che potrebbe essere concluso benissimo in una manciata di puntate. Invece, per motivi sconosciuti, il colosso dello streaming ha sempre imposto l’accennata durata standard di 13 episodi da ben 50-60 minuti (contro i 40-45 dei comuni show televisivi). Così, per far quadrare i conti, sceneggiatori e registi sono stati costretti ad allungare il brodo stirando certe svolte di trama, inserendo scene tappabuchi e adottando un ritmo lento e compassato.
Come prevedibile, il risultato è stato quello di appesantire gli show e annoiare il pubblico (solo Daredevil si salva in tal senso). E pensare che tutto ciò si sarebbe potuto evitare con un numero minore di episodi e, conseguentemente, un ritmo più incalzante. Quando Netflix ha tentato di aggiustare il tiro, riducendo a 10 le puntate della seconda stagione di Iron Fist, ormai era tardi.
Paradossalmente l’unica serie che avrebbe giovato dalla divisione in 13 parti è proprio quella più corta (solo 8 episodi), ovvero The Defenders. Quello che doveva essere l’epico crossover dei supereroi Marvel-Netflix avrebbe richiesto un po’ più di tempo perché la trama fosse sviluppata a dovere. Alla fine invece abbiamo avuto un prodotto troppo frettoloso e superficiale. Insomma, era troppo chiedere un giusto mezzo?
Vogliamo sfruttarla questa serialità televisiva?
A mio parere, le serie tv sono il medium migliore in cui trasporre i comic books, ancor più del cinema. Questo perché la serialità televisiva (o streaming) è l’unica in grado di replicare in maniera perfetta la serialità fumettistica. Se nei film si è infatti costretti a condensare gli eventi nelle classiche due ore, in tv è possibile suddividere le storie in più puntate, in maniera non dissimile da quanto accade nel mondo delle strisce. L’importante è saper sfruttare bene le potenzialità del mezzo, cosa che Netflix non ha saputo fare.
Per quanto non sia una regola fissa, solitamente gli albi a fumetti sono scritti in modo da essere autosufficienti. Può esserci una trama generale che unisce i vari numeri, ma ciascuna puntata ha un proprio intreccio, spesso incentrato sulla lotta contro un cattivo. Trattasi della cosiddetta narrazione verticale. Le serie Marvel-Netflix, al contrario, hanno optato per una narrazione esclusivamente orizzontale. In pratica gli show del Defenderverse sono dei film a puntate.
Spesso tale struttura narrativa è considerata superiore alla verticale o comunque indice di qualità nel contesto televisivo (specialmente da Lost in poi). In questo caso però è stata deleteria, avendo vanificato il vantaggio della divisione a episodi. In fondo che senso ha trasporre un fumetto in una serie se poi lo si adatta come un lungometraggio? Se ci aggiungiamo pure il fatto che le singole stagioni, come detto prima, hanno delle trame che si potrebbero chiudere in metà del tempo, la scelta di Netflix diventa ancora più incomprensibile.
Per capire come si sarebbe potuta migliorare la situazione, mi tocca tirare di nuovo in ballo l’Arrowverse. Ciò che ha fatto la fortuna degli show della CW è stata la compresenza di narrazione orizzontale e verticale: ogni stagione ha il proprio arco narrativo, ma ciascun episodio ha comunque un inizio, uno svolgimento e una fine. Così facendo, le serie DC non hanno solo saputo avvicinarsi maggiormente alla forma del fumetto, ma sono riusciti a rendere più interessante e coinvolgente la visione da parte del pubblico. Mentre invece Netflix, dilatando ogni volta all’inverosimile un’unica storyline, non ha fatto altro che garantire sbadigli.
Poi uno si chiede perché il Defenderverse ha fallito…