Film

Il divo – Il Papa nero secondo Paolo Sorrentino

Giulio Andreotti, soprannominato il divo (ma anche Il papa nero, Il Gobbo, La Sfinge, Belzebù, Molok), è stato il personaggio più longevo, nonché il più controverso, della storia politica italiana.

7 volte Presidente del Consiglio, 27 volte ministro, ininterrottamente in Parlamento dal 1945 al 2013, anno della sua morte. Per quarant’anni Andreotti è stato l’incarnazione non solo del potere, ma, secondo molti, di quelle forze sotterranee e occulte che per decenni hanno agito nell’ombra per contrastare l’ascesa del blocco comunista.

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Piazza Fontana, Piazza della Loggia, stazione di Bologna, l’organizzazione Gladio, la Loggia P2, la Banda della Magliana, la Mafia, lo Ior, i servizi segreti deviati. E ancora Sindona, Gelli, Calvi, Ambrosoli, Pecorelli, Dalla Chiesa, Bontate, Riina, Badalamenti, Mattarella, Moro. Le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa (accertata fino al 1980) e di mandante dell’omicidio Pecorelli (condannato in Appello, assolto in Cassazione).

Scandali che attraversano ininterrottamente la vita del divo, tanto che non sono pochi quelli che pensano ad Andreotti come all’incarnazione del Grande Vecchio, il vertice di quel sistema di poteri che ha governato e deformato la nostra democrazia per decenni, e del quale ancora oggi avvertiamo le scorie.

“Il giorno in cui morirà Andreotti, finalmente gli toglieranno la scatola nera dalla gobba, e finalmente sapremo“, diceva più di vent’anni fa Beppe Grillo in uno dei suoi show più celebri (ricordato anche da Sorrentino nell’unica scena in cui il divo accenna ad un sorriso).

Andreotti ormai è morto da tre anni, ma di tutti quei misteri e di tutti quei segreti inconfessabili ne sappiamo quanto prima. E così rimarrà.

Ma questa è un’altra triste storia.

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Ecco perché parlare di Andreotti non è altro che una resa dei conti con ciò che siamo stati. È andare a riaprire terribili armadi che si sperava rimanessero chiusi per sempre, ma che invece è doveroso tornare spolverare per rendersi conto di che cosa abbiamo perso nel corso di quella che è passata alla storia come la Prima Repubblica.

“LA CATTIVERIA DEI BUONI È PERICOLOSISSIMA”

Ed ecco perché, all’alba del nuovo millennio, l’idea di un film biografico su Giulio Andreotti sembrava fantascienza pura. Bastava infatti posare brevemente gli occhi sul triste e ignavo panorama cinematografico italiano per rendersi conto di come non ci fosse nessuno artisticamente e intellettualmente in grado di sobbarcarsi un compito così gravoso.

Ecco invece che spunta dal nulla un giovane regista, Paolo Sorrentino, che all’epoca vantava in curriculum tre grandissimi film (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia), con i quali tuttavia non era ancora riuscito a diffondere il suo nome oltre i confini nazionali.

Con Il divo cambia rapidamente tutto per il regista napoletano. Sorrentino scrive e dirige quello che è il suo primo, grande capolavoro, quello che annuncia il suo enorme talento al pubblico di tutto il mondo (non a caso il successivo This Must Be the Place vanterà nel cast attori del calibro di Sean Penn e Frances McDormand).

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Il 23 maggio 2008 Il divo debutta al festival di Cannes, ricevendo 10 minuti filati di applausi e facendo innamorare perdutamente la critica nazionale ed internazionale. Pochi giorni dopo il film deflagra nelle sale italiane, e per alcune settimane catalizza l’attenzione pubblica e politica del Paese, che viene travolto da speciali televisivi e da dibattiti sulla controversa figura del divo Giulio.

Il nome di Paolo Sorrentino è sulla bocca di tutti. Perfino su quella dello stesso Giulio Andreotti, che inizialmente definisce il film “una mascalzonata“, salvo ritrattare qualche giorno dopo.

Ma ora basta storia, e parliamo un po’ del film in sé.

“A PARLAR MALE DEGLI ALTRI SI FA PECCATO, MA SPESSO SI INDOVINA”

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Il divo non è un film, ma un ritratto. Il ritratto di un uomo oscuro, enigmatico e contraddittorio. Di conseguenza, la sceneggiatura di Sorrentino non può essere lineare, proprio perché non bisogna raccontare una storia, ma una vita.

L’inizio del film è cinema allo stato puro. Un incipit perfetto che riesce nell’impresa impossibile di riassumere il personaggio Andreotti in poche righe di monologo, che dimostrano quanto Sorrentino sia un Maestro anche nella scrittura.

Dopo un gelido e doloroso glossario dedicato alla burrascosa vita dell‘Italia degli anni di piombo, è lui a rompere il silenzio: Giulio Andreotti, interpretato da un incredibile Toni Servillo per la cui prova non ci sono francamente aggettivi degni (e un plauso va fatto anche al trucco, che si è meritato una Nomination agli Oscar).

La sua voce squarcia l’oscurità:

” – Lei ha sei mesi di vita – mi disse l’ufficiale medico alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così, mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro“.

Glaciale. Mozzafiato. Perfetto.

Pochi secondi dopo parte un’incredibile carrellata che riassume in appena due minuti gli omicidi più celebri che macchiarono quegli anni terribili, ed è un trionfo di arte cinematografica, una corsa forsennata attraverso la storia che lascia lo spettatore esausto e sopraffatto.

Sono passati 5 minuti, e siamo già di fronte ad un autentico capolavoro.

“IL POTERE LOGORA CHI NON CE L’HA”

Il divo parte il giorno della nascita del VII Governo Andreotti, e ancora una volta c’è da stropicciarsi gli occhi davanti alle trovate di Sorrentino, che inanella una sequenza più memorabile dell’altra.

“Presidente, sta arrivando una brutta corrente“, afferma la segretaria di Andreotti accostandosi alla finestra. E poco dopo la brutta corrente arriva davvero, solo che non si sta parlando del vento, ma della corrente andreottiana della Democrazia Cristiana (nella quale svetta un grande Carlo Buccirosso nel ruolo di Cirino Pomicino). E Sorrentino dimostra la sua genialità, presentandoci gli uomini di Andreotti allo stesso modo in cui Tarantino ci presentava Le Iene.

Una scena favolosa e inquietante, accompagnata dalle solite colonna sonora perfetta di Sorrentino, che trasuda marciume e sporco dall’inizio alla fine.

Il film prosegue seguendo il lento deperimento del potere di Andreotti, bombardato dagli scandali di Tangentopoli prima e dall’omicidio di Salvo Lima poi, che getterà definitivamente sul divo l’ombra dei rapporti con Cosa Nostra. Sarà poi la mancata elezione a Presidente della Repubblica a decretare la sostanziale fine politica dell’uomo più potente d’Italia, che da quel giorno dovrà fare i conti con la magistratura (nonostante la nomina a senatore a vita gli consentirà di rimanere in Parlamento fino al giorno della sua morte).

La ricostruzione degli eventi è un’autentica goduria per un’appassionato di storia italiana (e il grado di conoscenza degli eventi influisce indubbiamente sulla possibilità di seguire e di apprezzare al 100% l’opera di Sorrentino). Il divo ci porta per mano nel cuore di quegli anni storici e terribili, conducendoci per i corridoi del potere e delle menzogne che Andreotti attraversa silenziosamente, quasi di soppiatto, assomigliando più al Dracula di Coppola che ad un uomo.

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Sorrentino è inoltre bravissimo a non prendere mai esplicitamente una parte nelle controversie che ci racconta (anche se la sua posizione è implicita nel fatto di aver voluto girare un film del genere), riuscendo ad essere incredibilmente partecipe da un lato e allo stesso tempo moralmente distaccato.

Una contraddizione di difficile comprensione, un po’ come quella che Sorrentino attribuisce ad Andreotti in quella che è probabilmente la scena più incredibile de Il divo.

“NON BISOGNA MAI LASCIARE TRACCE”

Rendere possibile l’impossibile, rendere reale ciò che la realtà non è in grado di offrirci. Ecco cos’è la magia. O, se vogliamo, il genio. E il duo Sorrentino-Servillo, in questa incredibile monologo già entrata nella storia del cinema italiano, ci hanno consegnato quello che gran parte dell’Italia ha aspettato per decenni, ma che non ha mai ottenuto: la confessione di Giulio Andreotti.

Una scena la cui maestosità si commenta da sola, nella quale la classe di Sorrentino e il talento di Servillo raggiungono vette larger than life, come dicono negli Stati Uniti. Un monologo unico e irripetibile, che riesce a mostrarci Andreotti sotto un altro punto di vista: un uomo solo (come soli sono tutti i protagonisti dei film di Sorrentino, Jep Gambardella in primis), un uomo così ossessionato dalla sua missione da trasformarla in una sorta di martirio morale, un uomo costretto a nascondere i suoi lati più oscuri anche a sé stesso, in modo da non lasciare alcuna traccia.

E che dire poi del duello mozzafiato fra Scalfari e Andreotti? Un’altra sequenza da antologia, alla fine della quale Sorrentino riesce nell’impresa di coniare un ennesimo motto per il suo divo: la questione era un po’ più complessa.

“PREFERISCO ANDARE AI BATTESIMI PIUTTOSTO CHE AI FUNERALI”

Credo sinceramente che l’importanza che ha avuto Il divo nella rinascita del cinema italiano sia incalcolabile. Insieme a Gomorra (film, non serie), il film di Sorrentino ha letteralmente riportato in vita un certo tipo di cinema che in Italia sembrava non potesse trovare più natali: il cinema che si sporca le mani, che non ha paura di essere scomodo e graffiante.

Perché il cinema è arte, e l’arte ha il dovere di prendersi delle responsabilità, di indagare i lati più oscuri e controversi della società, e di illuminarli con la sua luce.

Con Il divo il cinema d’autore italiano si è riaffacciato prepotentemente sul mondo, ed è tornato a riacquistare una levatura artistica che per anni si stava tristemente spegnendo.

Il divo ci ha inoltre regalato la definitiva consacrazione di un regista che è già entrato nella storia del nostro Paese, nonché la consacrazione di un attore magnifico come Toni Servillo, che dopo anni di carriera ha finalmente acquisito il rispetto e la notorietà che meritava da tutta una vita.

E allora, nella speranza che Sorrentino ripeta il miracolo con il già annunciato biopic su Silvio Berlusconi, non possiamo far altro che ringraziare il regista napoletano di avere regalato a noi e al nostro cinema una perla del genere.

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P.s. se siete fan di Sorrentino, fate un salto dai nostri amici di Frasi Film Paolo Sorrentino!

Roberto Lazzarini

25 anni, cresciuto fin dalla tenera età a film, fumetti, libri, musica rock e merendine. In gioventù poi ho lasciato le merendine perchè mi ero stufato di essere grasso, ma il resto è rimasto, diventando parte di quello che sono. Sono alla perenne ricerca del mio film preferito, nella consapevolezza che appena lo avrò trovato, il viaggio ricomincerà. Ed è proprio questo il bello.
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