
Il furore della Cina colpisce ancora: l’esordio da protagonista di Bruce Lee
I film di arti marziali hanno sempre esercitato un certo fascino sul sottoscritto: ho amato molto i due The Raid e l’altrettanto pheego Headshot; mi sono divorato tutti i wuxia usciti da La tigre e il dragone in poi con gargantuesco piacere; la saga di Ip Man ha scandito molti miei pomeriggi liceali passati a guardare film anziché studiare; Riki Oh è un personale guilty pleasure che sono orgoglioso di avere; mi sono sparato in vena non pochi film con Jackie Chan divertendomi come un pazzo. Eppure, fino a non molto tempo fa, non avevo mai visto nulla con protagonista il padrino di tutta questa nutrita filmografia: Bruce Lee.
Stimolato un po’ anche dalla visione del bellissimo (e non osate dire il contrario, se no ve meno) C’era una volta a… Hollywood, in cui quel mattacchione di Quentin Tarantino omaggiava (perculandolo un po’ bonariamente) il nostro combattente preferito, mi sono finalmente deciso a colmare la lacuna, e ho guardato Il furore della Cina colpisce ancora (titolo italiano di The Big Boss), effettivo esordio cinematografico di Bruce Lee dopo varie apparizioni televisive poco rilevanti.
Siamo in Thailandia agli inizi degli anni Settanta, e il giovane Cheng (Lee) è giunto sul posto dalla Cina. Qui, Cheng ottiene lavoro come operaio in una fabbrica di ghiaccio, ma tutto inizia a non andare più per il verso giusto quando per caso fortuito scopre che tutto è una copertura per un traffico di cocaina gestito da un mafioso. La ripercussione non tarderà, ma boss e scagnozzi non hanno tenuto conto di un piccolo, irrilevante dettaglio: Cheng è una macchina di morte esperta di arti marziali, e saranno botte da orbi.
Il furore della Cina colpisce ancora è senza dubbio un decoroso inizio per la carriera di Mr Lee, il quale sfoggia un’ammirevole fisicità durante le varie scene di combattimento. Scene, queste ultime, che prevedibilmente sono il vero focus della pellicola, ben girate e montate anche meglio, e proprio per tali ragioni godibilissime ancora oggi, specie a fronte del basso budget. A questo aggiungiamo le esotiche location e una colonna sonora che gronda anni Settanta da ogni poro, e sono presenti all’appello tutte le caratteristiche del cult d’annata pronto a influenzare un’abbondante fetta di storia del cinema successivo.
Difetti? Sì, Il furore della Cina colpisce ancora ne ha, piuttosto evidenti. E quasi tutti risiedono nella sceneggiatura. La trama è molto scarna, e considerato il tipo di film che abbiamo per le mani va bene anche così, ma alla luce del tema trattato (la lotta alla mafia) e di alcuni snodi narrativi abbastanza tragici (muore un personaggio molto caro al protagonista), è innegabile si potesse fare qualcosina di più in fase di scrittura, soprattutto per quanto riguarda l’impatto emotivo e quelle varie derive “socialmente impegnate” a cui Lee, è noto, fu molto legato. Non che pretendessi La classe operaia va in paradiso o Fronte del porto in salsa kung fu, ci mancherebbe.
Un altro difetto è la gestione non sempre brillante del ritmo. Per come si è scelto di impostare il racconto, su un’ora e quaranta di durata totale, almeno un quarto d’ora di dialoghi e sequenze inutilmente tirate per le lunghe poteva essere potato senza grossi problemi, e il film ne avrebbe di gran lunga guadagnato. Si tratta comunque di negligenze che non nuocciono troppo al fascino generale di un classico del cinema di genere assolutamente da non perdere.