
Il gioco delle coppie, o il “vorrei ma non posso” della commedia francese
Quando mi sono imbattuta, per puro caso, nel trailer de Il gioco delle coppie, uno dei commenti era “la risposta francese a Perfetti sconosciuti”. Qualcuno lo ha addirittura definito “il film più divertente dell’anno”; ora, io non oso immaginare che razza di anno abbia avuto questo poveretto, se l’ultimo film di Olivier Assayas ne è stato l’apice. Già, perché Il gioco delle coppie è infido: sembra la classica commedia francese brillante, ma in realtà è solo un lento incedere di situazioni sconnesse e dimenticabili; si veste da divertissement per intellettuali quando agli intellettuali, quelli veri, fa solo il verso, e nemmeno troppo bene.
Parigi, interni mediamente lussuosi e vite borghesi in un monotono sbaraglio: Vincent Macaigne è uno scrittore più o meno in crisi, una sorta di Houellebecq più pacioccone e meno tagliente, che vorrebbe convincere il suo editore Guillaume Canet a pubblicare la sua ultima fatica, ma quest’ultimo tentenna; la moglie di lui è Juilette Binoche, attrice con velleità finita a recitare controvoglia in una serie poliziesca, e a tempo perso va a letto con l’amico scrittore, che a sua volta sta con Nora Hamzawi, assistente di un politico con un sacco di telefoni e nemmeno un minuto per fare l’amore con il suo uomo, figuriamoci con altri; dulcis in fundo, l’affascinate editore ha una tresca con Christa Théret, rampante esperta di tecnologie digitali ingaggiata per rimodernare la casa editrice ed eterosessuale non troppo convinta, ché si sa, ormai non va più di moda.
Messo così Il gioco delle coppie è parecchio accattivante: i presupposti per una commedia scorretta ed elegante à la The Party ci sono tutti. Peccato però che a conti fatti somigli di più all’altrettanto deludente The Square: tematica intrigante, ottimi propositi, realizzazione così così. Per gran parte del tempo il quintetto se la canta e se la suona raccontandosi quanto sia bue il popolo che legge sempre meno e sempre meno sul cartaceo, come i libri spariranno per lasciare il posto a tablet e smartphone, e che l’editoria dovrà adeguarsi per non soccombere. Dialoghi che per la prima mezz’ora possono anche illudere uno spettatore particolarmente indulgente, in primo luogo con se stesso, di essere dotato di cultura e intelligenza superiori, ma che dopo un po’ finiscono per rivelarsi per quello che sono: una fuffa inconsistente.
A nulla valgono alcune trovate neanche troppo malvagie – la Binoche che parla di se stessa in terza persona compiendo una blanda operazione di metacinema, o gli accenni qua e là alla post-verità, o ancora lo scrittore che per sembrare più raffinato trasforma le sporcacciate al cinema davanti a Star Wars in sporcacciate, sì, ma durante la visione de Il nastro bianco; la sensazione costante è che i protagonisti de Il gioco delle coppie, ben lungi dall’essere divertiti, elettrizzati o angustiati, si accoppino tra di loro fondamentalmente per noia. La stessa che pervade lo spettatore, sempre più allibito di essersi lasciato abbindolare così facilmente, per quasi due ore. Come se Woody Allen un mattino si fosse svegliato e, anziché un caffè, si fosse fatto un bicchierone di Xanax.
O forse, Il gioco delle coppie altro non è che una furbissima metafora della vita – e messa così in effetti si spiegherebbero il ritmo lento, le storie sconnesse, le battute insipide: le aspettative sono sempre, inevitabilmente, drammaticamente più alte della realtà.