
Il gioco di Gerald – Un’ora e quaranta ammanettati a uno schermo
Il gioco di Gerald: il nuovo thriller psicologico firmato Stephen King e Netflix.
Al buon bastimento buon capitano
Ormai ci stiamo abituando a distinguere tra film che escono al cinema, film che escono direttamente in home-video e film prodotti da Netflix e dunque rilasciati in esclusiva sulla piattaforma digitale. Non si può di certo dire che tutto ciò che porta la firma di Netflix sia oro colato (quella recentissima porcheria ispirata a Death Note ne è la prova), ma nemmeno che ci siano solo schifezze (vedi il buon The Space Between Us).
Come spesso accade molto dipende dal regista, da chi sta dietro la macchina da presa, e questa volta i dirigenti Netflix hanno compiuto davvero un’ottima scelta nel mettere a capo delle operazioni uno dei registi horror più emergenti della scena internazionale, ovvero quel Mike Flanagan giù autore di perle come Oculus – Il riflesso del male, Somnia e Ouija – L’origine del male, ottimo prequel di quel pattume di Ouija (che merita un posto d’onore tra i 10 horroracci più brutti degli ultimi anni).
Un buon regista horror per un buon horror, direte voi. E invece no, perché Il gioco di Gerald horror non lo è. Lo si può agevolmente catalogare come thriller psicologico davvero ansiogeno e introspettivo, un incubo a occhi aperti che intrattiene senza mezzucci, ma solo con la buona lena e i cari vecchi strumenti del grande cinema: regia, montaggio, sceneggiatura, fotografia.
Un kammerspiel originale griffato King
Il 2017 pare davvero essere l’anno di Stephen King, anche se questo non è sempre sinonimo di buoni prodotti. Dopo la buona serie 22.11.63, uscita l’anno scorso e targata Hulu, quell’immondezzaio di Cell, quel pattume de La Torre Nera e l’attesissimo It di Andrès Muschietti, Netflix decide di portare sul piccolo schermo anche questo romanzo, che non figura certamente tra i più acclamati dello scrittore di Bangor.
Partiamo dal presupposto che Stephen King è un po’ come Tarantino: o lo si ama o lo si odia. La critica lo snobba, relegandolo ai più paludosi e lagunari estremi della cosiddetta Narrativa Alta, quella dei De Lillo, dei Wallace, degli Ellis, dei Pynchon e compagnia danzante, ma la verità è che il Re di questa distinzione se ne frega, continuando a confezionare le sue storie da incubo. Tra queste, ovviamente, ci sono quelle più riuscite e quelle meno, ma nei suoi libri quasi mai viene a mancare l’elemento di fascinazione primigenio, quella che molti chiamerebbe l’Idea, figlia prediletta dell “…e se?”. Anche in questo romanzo (uscito nel 1992) il soggetto è uno dei più interessanti di sempre: e se in una casa isolata, durante un giochino erotico in cui lei viene ammanettata al letto, lui ci restasse secco a causa di un colpo di cuore? Come farebbe lei a cavarsela?
Genio.
Jesse e Gerald sono una coppia di mezza età, benestante e senza figli, che apparentemente ha solo bisogno di dare una pepata al loro rapporto di coppia. Così decidono di passare un weekend nel loro cottage sul lago. Scopo della vacanzina ritrovare un po’ di intimità e annegare in un po’ di buon sesso i problemi che da tempo si trascinano dietro. Problemi all’apparenza tanto superficiali, ma che – col passare del tempo – si rivelano in tutta la loro drammatica enormità.
Come sempre accade con le trasposizioni da un romanzo – soprattutto se di Stephen King – il rischio di fallire clamorosamente è sempre dietro l’angolo. Come si realizza la perfetta trasposizione da romanzo? Esiste una ricetta? Il regista deve stravolgere del tutto l’opera di partenza per dare la propria visione come Kubrick con Shining? Oppure la fedeltà assoluta è sempre il miglior stratagemma, come dimostra Peter Jackson con la trilogia de Il Signore degli Anelli? In una gamma che va da Shining a Il Signore degli Anelli, Il gioco di Gerald si colloca circa a metà, mantenendo un ottimo rapporto con l’opera di partenza, ma senza esserne dipendente in tutto e per tutto. Flanagan riesce a mettere in scena un grandioso kammerspiel (dramma da camera, per chi non è pratico col teutonico) che si regge sulle spalle della meravigliosa Carla Gugino (la regina delle milf) in vestaglia sexy per tre quarti di film e immersa nei suoi ricordi per la restante parte.
I licantropi del di dentro
Nonostante Il gioco di Gerald fosse una delle trasposizioni da King più immediate di tutte, niente mostri, niente effetti speciali, niente sbudellamenti, niente licantropi, vampiri e pagliacci assassini, viene da chiedersi come mai non fosse mai stata realizzata, a venticinque anni dall’uscita del libro. La risposta è semplice, ed è che Il gioco di Gerald non è poi un libro così facile da tradurre sullo schermo. Estremamente onirico, introspettivo, è tutto giocato sui monologhi interiori di Jesse legata al letto, che – preda del panico e di un’incipiente follia – costruisce nella sua mente diversi dialogatori, diverse voci che rappresentano le differenti sfaccettature della sua anima, della sua personalità.
Manette e libertà, verità e bugie. L’intero racconto dunque non è altro che un viaggio nella psiche della protagonista che, prima di liberarsi dalle manette d’acciaio che la costringono alla testiera del letto, dovrà sbrigliarsi da quelle dell’anima, da quei ricordi terribili che ha sepolto nel suo passato. Flanagan riesce perfettamente a rendere sullo schermo questi conflitti interiori, dando corpo a diversi “fantasmi” che parlano con Jesse, che la consigliano, la sostengono, oppure la tormentano, le fanno notare le contraddizioni che traveste da verità di fede, le bugie che racconta a se stessa.
In sostanza ci troviamo di fronte a un thriller psicologico coi fiocchi, con un finale bomba e con un paio di plot-twist mica male che danno ulteriore sostanza a una storia fantastica, tutta giocata sui personaggi, sulle proiezioni dei loro mostri interiori. Se questo è lo standard a cui ci vuole abituare Netflix allora tanti auguri a chi il cinema, quello che vive ancora nelle sale, deve cercare di tenerlo in vita.