
Il giovane favoloso – “E se io vivrò, vivrò alle Lettere”
Mario Martone firma la più emozionante delle parafrasi poetiche, dipingendo Leopardi con la pellicola.
Se mi chiedete che ne penso de Il giovane favoloso mi viene istintivamente da rispondervi che è «Acqua di fonte per cuori aridi».
Non che questo c’entri qualcosa con la pellicola, niente citazioni: questa è solo roba mia. Inizio così e vorrei continuare allo stesso modo, perché ci sono film che emozionano talmente tanto che non possono essere raccontati con l’oggettività del recensore (anche se qui di recensori non ce n’è manco uno), ma con l’occhio lucido dello spettatore che torna a casa e gli viene voglia di parlare di quello che ha visto.
Dopo un 2013 sovrastato da La grande bellezza di Sorrentino, nel 2014 il cinema italiano piazza un altro centro con questa pellicola di Mario Martone, che si accosta forse alla figura letteraria meno cinematografica di tutta la storia della letteratura. Sì, perché prima di cominciare a parlare del film in sé cerchiamo di capire cosa ha significato concepire un biopic su una figura come Giacomo Leopardi, una specie di monolite in stile Stonehenge ficcato nel cuore della nostra letteratura; un monumento che fissa (a mio modesto avviso) tutti quanti dall’alto in basso. Sarò dunque impulsivo e incosciente e partigiano, ma ritengo Leopardi il più grande letterato di tutti i tempi, anche più grande di Dante. Forse a questo punto è la tesi su Leopardi che ho discusso da qualche mese a parlare per me, oppure sarà che sento mie molte delle sue parole (solo il senso, per la carità). Vai a sapere…
Sta di fatto che quando sento criticare questo film la prima obiezione che pongo è “Ma tu un film su Leopardi come l’avresti fatto?”. Già perché, non scordiamolo, stiamo parlando di un signore vissuto principalmente seduto alla sua scrivania a leggere i classici, a tradurre dal greco, a recuperare i trattati del Cinque/Sei e Settecento, a formarsi quella cultura semi universale che tanto lo ingrandì nell’animo quanto gli compromise il fisico (i famosi “Sette anni di studio matto e disperatissimo”). Non stiamo parlando di Hemingway che andava a cavalcare tori sbronzo marcio dopo aver passato la notte nei bordelli.
Quindi come tratteggiare la sua storia? Come far intendere che con lui la letteratura italiana tocca uno dei suoi vertici più alti? Martone decide semplicemente di raccontare l’uomo, di raccontarne la sofferenza, di raccontarne la grandezza.
Interpretato da uno stupefacente Elio Germano, che si conferma come uno degli attori più strabilianti di questa new-age del cinema italiano (e chi dissente si guardi Smetto quando voglio, La grande bellezza, Non essere cattivo, Perfetti sconosciuti e Suburra, tanto per far qualche titolo) Leopardi torna a camminare, soffrire e recitare i suoi versi, torna in un film che non scade nella scolastica descrizione di quei quattro dettagli topici sulla sua figura, ma ne esplora il vissuto e la poetica. Il tutto è realizzato con una cura maniacale per la biografia, per la storia, per l’epoca ottimista e speranzosa, mostrando la sua critica per quella congrega di “nuovi credenti”, di illusi e stupidi cultori del progressismo; di ottimisti idioti, che Leopardi osteggia e parodia, sostenendo che l’infelicità dell’uomo è un fatto talmente evidente e incontrovertibile che è da stupidi credere nelle “magnifiche sorti” del genere umano.
“Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco”La ginestra
Martone mette in scena un Leopardi che è praticamente identico a quello che si potrebbe immaginare: un giovane difficile, annichilito da sconvolgimenti interiori e fisici che ne minano il comportamento sociale, ma dotato di una stupefacente capacità di immaginare, descrivere sensazioni, animato da uno “smodato, forse insolente desiderio di gloria”; stretto a imbuto tra una madre assente, ultra-bigotta e menefreghista e un padre che non lo molla mai un secondo, la cui unica consolazione sta nella biblioteca e nei fratelli/amici.
Dopo la parte iniziale a Recanati, Martone skippa di dieci anni, mostrandoci Leopardi insieme al sodale Antonio Ranieri (interpretato da Michele Riondino), col quale viaggia per le città italiane alla ricerca di lavoro e stima presso i salotti letterari. I due si spostano da Firenze a Roma, fino ad arrivare a Napoli, città natale del regista, ed è qui che Martone forse commette l’unico errore del film, ovvero dilata eccessivamente la fase partenopea della vita di Leopardi, abbandonandosi alla descrizione di una Napoli di inizio Ottocento con tutti i suoi problemi: una povertà dilagante, epidemie di colera e tifo che si susseguono l’una all’altra…
Detto ciò il finale è da brividi e smentisce vigorosamente tutti coloro che hanno tacciato questo film di patetismo e di aver ritratto Leopardi come una macchietta sofferente. Germano è straordinario, interpreta alcune delle poesie leopardiane con una forza, una carica e una delicatezza sbalorditive, riuscendo a non far scadere il suo personaggio nella macchietta. Anzi lo eleva, aiutato dalla regia di Martone e dalla magnifica colonna sonora del gruppo elettronico Apparat, creando una biografia convincente ma non stereotipata, per un film che possiamo assolutamente definire autoriale.
Per il finale viene scelta La ginestra, recitata mentre il Vesuvio erutta sotto un manto di stelle, una sequenza onirica e splendida che suggerisce l’imminente morte del poeta, ma non la mostra, perché a Martone più che il Leopardi sofferente e piagnone interessa il grande poeta, colui che più di tutti ha incarnato la ricerca dell’uomo di travalicare i propri confini con i mezzi della sua arte, colui che meglio ne ha descritto gli sconvolgimenti interiori.
Vi lascio con le parole di un Leopardi appena diciannovenne, parole in cui racchiude tutto sé stesso, tutta la sua passione ardente, la sua tragica condanna a una grandezza postuma e dolorosa:
“Nondimeno Ella può esser certa che se io vivrò, vivrò alle Lettere, perché ad altro non voglio né potrei vivere”