
Il grande Gatsby: non si può replicare il passato, o forse sì
Una lettura obbligata
Come ogni liceale, ho fatto Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald nel programma di inglese del quinto superiore. O almeno, la mia prof ci disse che appena arrivavamo agli anni ’20 si leggeva Il grande Gatsby, cascasse il mondo e non suonasse più la campanella.
Forse io Il grande Gatsby però l’ho capito appieno tempo dopo, proprio quando è uscito il film omonimo diretto da Baz Luhrmann, quello con Leonardo DiCaprio (e dire che la prof ci fece vedere quello con Robert Redford, che sarà stato bello quanto gli pare – lui, ma anche il film – però diciamocelo, vedere Leo e sospirare ripensando al “Dove la porto, signorina?” è decisamente un’altra cosa).
Fatto sta che adesso, grazie a quel buontempone del karma, la lezione su Il grande Gatsby mi sono ritrovata a farla io a una classe di studenti del quinto. Ed è quando ragazzi di diciotto anni si identificano senza sforzo in quella disperata riconquista di Gatsby verso Daisy che questa storia prende davvero vita (e la tua autostima personal-professionale si carica a pallettoni, ma questa è un’altra storia).
Una storia universale
Anche se di anni ne avete qualcuno in più, scoprirete che la storia de Il grande Gatsby è assoluta – e lo è perché, semplicemente, non è niente di nuovo. Gatsby, per quanto figo e irraggiungibile si mostri, fa né più né meno che quello che facciamo noi ora col click-baiting mirato, l’esca da click. Esempio pratico: condividere con nonchalance su Facebook canzone indie-hipster sconosciuta a voi ma preferita del tipo/tipa a cui volete estorcere a tutti i costi il like-proposta di matrimonio (eh eh eh, beccati.). Solo che Gatsby ci mette un po’ più di impegno, e per riprendersi il suo grande amore si costruisce un personaggio avvolto dalla miglior aura di mistero e di soldi, inventando un’immagine di sé perfetta e irresistibile.
Un mondo ricontestualizzato
Si sa, l’attesa che si crea intorno a una nuova uscita è sempre un rischio, e 7-8 volte su 10 il prodotto non corrisponde alle aspettative. Io ho visto Il grande Gatsby per una sincera curiosità unita a una altrettanto sincera quanto enorme diffidenza, perché già dal trailer pareva una trashata clamorosa tutta oro pacchiano e digitale esagerato.
Invece, la cosa più bella è che è il contesto è un altro, ma la potenza è la stessa.
Questa versione de Il grande Gatsby è fatta sulla falsa riga del film vecchio, lo omaggia e lo sposta avanti nel tempo.
Quello che fa Baz Luhrmann non è niente di eccezionale, teniamolo presente. Però è una cosa che, se fatta bene, funziona sempre: la mia pièce teatrale preferita, L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, è un capolavoro costruito su un copione di un secolo prima, che ha fatto un successo spropositato all’epoca dopo che questo stesso copione è stato ricollocato (oh, ma tu guarda un po’) negli anni ’20. Perché una cosa del genere continua a fare successo? Semplice: determinate cose succedono sempre.
I ruggenti anni del jazz
E non dimentichiamoci che gli anni ’20 sono (erano) effettivamente l’apice del trash: il mondo appena uscito dalla guerra voleva dimenticare quel terribile passato buttandosi su tutto ciò che fosse frivolo e leggero: e allora via di abiti con le frange, capelli a caschetto, charleston, feste e macchinoni. Il grande Gatsby è una storia figlia del suo tempo, figlia della jazz age: non si può replicare il passato e non si può nascondere il brutto sotto lo scintillante tappeto del glamour e del divertimento. Notate qualche analogia con i giorni nostri? Ecco.
Una colonna sonora indovinata
Una delle trovate migliori. Non il jazz (non solo, almeno), ma i ritmi elettronici più serrati, le voci più strascicate, gli archi più struggenti. Tra nomi come Beyoncé, Jay-Z, Gothye, Emeli Sandé, ne spiccano di sicuro due, con relative canzoni: Fergie e Nostra Signora del Perpetuo Malessere Lana del Rey. La voce di Fergie anima una delle feste più estreme di Gatsby al grido sgrammaticato (per amor di licenza poetica) di “A little party never killed nobody”, quella di Lana implora “Will you still love me when I’m no longer young and beautiful?” nel momento zenith della storia, dal quale poi si può solo precipitare.
Dei personaggi perfetti
Tobey Maguire è sempre un faccino pulito e rassicurante, perfetto per il personaggio di Nick Caraway, il narratore, buttato a mare in mezzo a questo mondo di eccessi e contraddizioni (e lui stesso si definisce “within and without”, dentro e fuori), ma ben deciso a restare a galla.
Gatsby funziona perché è un po’ The Wolf of Wall Street un po’ Jack del Titanic (che sta a Leonardo DiCaprio come Hermione sta a Emma Watson, è un dato di fatto). Dalla lobby dei puristi dei testi scritti mi dicono che Gatsby non era affascinante perché era bello, ma perché si era costruito tutto un suo personaggio; però a noi che ce frega, tutto è concesso in questa ri-messa in scena dove l’estetizzazione massima è l’imperativo categorico.
Carey Mulligan se la contende tantissimo con Mia Farrow della vecchia versione de Il grande Gatsby, e riesce a fare una Daisy più che convincente. E badate che Daisy è un personaggio parecchio complesso: il rischio di fare giusto una ragazza frivola e poco sveglia è alto, quando in realtà Daisy è semplicemente una barca che si è arresa alla corrente (tenetevela bene a mente questa cosa delle barche che ci ritorniamo dopo. Giuro che non l’ho detto con tono da prof.). Lo si capisce bene forse anche solo da una singola battuta:
E spero che [mia figlia] sia anche stupida. È la cosa migliore per una ragazza in questo mondo: essere una bella oca giuliva.
Lo si capisce ancora meglio anche da un’altra cosa molto più evidente e anche abbastanza prevedibile, ma che è uno SPOILER GIGANTESCO quindi se non conoscete la storia siete ancora in tempo per chiudere gli occhi e riaprirli qualche riga più giù: Daisy rimane con suo marito. Eh, caro Gatsby, non ti ama adesso che sei veramente giovane e bello, figuriamoci poi.
Questa cosa che non si può replicare il passato, Il grande Gatsby non ce la lascia poi tanto chiara e definitiva. L’explicit del libro di Fitzgerald è una delle migliori immagini mai messe su carta – quella famosa immagine delle barche, e loro la replicano (oh, ma tu guarda un po’ -2-) pari pari. Siamo barche contro la corrente, che vanno avanti e allo stesso tempo sono respinte indietro verso il passato. Vogliamo raggiungerlo ancora? Forse. Pensiamo che il meglio sia già venuto? Probabilmente. Vogliamo un futuro all’altezza delle nostre aspettative? Sicuramente.
E pensate che il povero Frankie è morto pensando che il suo libro fosse un flop.