
Il mostro di St. Pauli: molta morte, moltissima miseria e un filo di noia
Amburgo, Anni Settanta. Ci si aspetterebbero riferimenti alla Guerra Fredda, ai movimenti giovanili, al mondo in fermento: niente di tutto ciò. Il mostro di St. Pauli potrebbe essere ambientato in un qualsiasi luogo e in una qualsiasi epoca, se non fosse che è tratto da un episodio di cronaca: bastano un baraccio di periferia, una storia di sesso (poco) e morte (tanta), e tonnellate di miseria umana.
Ultima fatica di Faith Akin, distribuito in qualche sala minuscola e indipendente che più indipendente non si può, Il mostro di St. Pauli è quanto di più lontano si possa immaginare dai suoi precedenti lavori: l’unica cosa che ha in comune con Soul Kitchen, tanto per dirne uno, è l’hinterland tedesco in tutto il suo splendore; ma delle battute e della musica che pervade la cucina dell’anima di qualche anno fa non c’è traccia. Al massimo, qualche scena involontariamente ironica – la visione della bella ragazza che addenta pezzi di carne cruda al rallentatore ha rischiato di strappare più di una risata in sala.
Ma cominciamo dal principio: Il mostro di St. Pauli è la storia di Fritz Honka, il cui lavoro non è chiaro, ma dagli hobby parecchio interessanti. Bere, giocare d’azzardo, e se capita l’occasione massacrare prostitute e donne sole per poi rinchiuderne le membra in dispensa. E il bello è che andrà avanti per un sacco di tempo – cinque anni per un totale di quattro sfortunate donzelle, con qualche blanda parentesi di tentativi di redenzione andati a vuoto: sarà scoperto solo con l’incendio involontariamente causato dai vicini del piano di sotto, che non sembrano eccessivamente turbati dal vedersi piovere dei vermi in testa o dalla puzza di cadavere che pervade la palazzina.
La trama de Il mostro di St. Pauli è tutta qui, e avrebbe potuto essere una bomba. Manca però qualcosa al film: un protagonista, prima di tutto. Jonas Dassler è truccato meravigliosamente, ma qui si ferma la sua performance: il mostro si limita a parlare in tono strascicato, spogliarsi ogni tanto e guardare con aria lasciva ogni donna che gli capita a tiro. Sembra che Faith Akin abbia deciso di girare un documentario più che un film: dettagliato, fedele, ma non esente da qualche sbadiglio.
Menzione d’onore invece per i coprotagonisti e per l’ambientazione: il volto gonfio e tirato di Margarete Tiesel è perfetto per l’immagine della prostituta anziana, abbandonata dalla figlia e troppo stanca per essere disperata. In un rigurgito di pietà, proverà addirittura a rassettare lo sgabuzzino di Fritz, trasformandosi suo malgrado in una sorta di moglie / madre / governante. Il guanto d’oro, il bar dove si svolge la maggior parte della storia nonché titolo originario e molto più appropriato del film, è esattamente ciò che pensate: un bugigattolo sporco, con le tende sempre tirate (“I clienti non bevono con la luce del giorno”), e avventori piuttosto pittoreschi. Si va dall’ex ufficiale delle SS dedito a tiranneggiare i compagni di bevute, al vecchio alcolizzato, a una schiera di donnine sboccate e lacrimevoli, a incoscienti damine desiderose di redimere il prossimo più per noia che per vocazione. Gli unici a spiccare in questo oceano di degrado sono i due liceali, lei bella e svogliata, lui imbranato e affamato di futuro: che, attratti dal proibito, metteranno piede al Guanto d’oro solo per andarsene schifati; più che torbido, quel posto è rivoltante.
Il mostro di St. Pauli sembra voler far eco a M – Il mostro di Düsseldorf, senza averne però la tensione narrativa: poco thriller, pochissimo horror, e uno sguardo lucido e distaccato verso il fondo dell’umanità. Da non perdere i titoli di coda con le foto del processo e dell’appartamento di Honka, forse la sola cosa in grado di suscitare qualche brivido nello spettatore.