
Il prigioniero coreano: non si può scappare da se stessi
Kim Ki-duk, regista nato in Corea del Sud, riconosciuto come uno dei più importanti maestri del cinema asiatico, con il suo film Il prigioniero coreano vuole condurre lo spettatore, specialmente quello europeo, dentro alla crisi tra Seoul e Pyongyang.
Nam Chul-woo è un povero e onesto pescatore nordcoreano che si guadagna da vivere salendo tutti i giorni sulla sua piccola barca con la speranza di riuscire a mettere qualcosa nella rete. Un giorno però qualcosa va storto, il motore si rompe e la corrente lo trascina al di là del confine.
Seung-bum Ryo, oltre ad avere un nome non proprio facile da ricordare, interpreta magistralmente il ruolo del protagonista, mostrando insicurezza, paura e l’incertezza di un futuro migliore. Arrivato in terra nemica, sulle sponde della democratica Corea inizierà un vero e proprio calvario. “Ah, ma quelli non sono i bravi?” si domanderà qualcuno, dimenticandosi però che a volte non esiste una vera e propria linea di demarcazione tra bene e male.
Nam d’improvviso e senza essere preparato psicologicamente, si ritrova in un situazione più grande di lui dalla quale è troppo tardi anche per scappare. Scambiato per una spia deve subire una serie d’interrogatori, domande scomode e giochetti mentali. È bene ricordare che il tutto avviene in una situazione politica decisamente scomoda pronta a esplodere. Dopo una serie di errori e scelte sbagliate il pescatore diventa il perfetto agnello da sacrificare sull’altare della democrazia e della giustizia.
Forse però esiste un ultimo barlume di speranza racchiuso nell’umanità di Oh Jin-woo, giovane poliziotto che deve occuparsi di sorvegliare il prigioniero. Nasce così un rapporto di amicizia, lealtà e rispetto tra due persone con origini e pensieri diversi che entrano in contatto diventando quasi la salvezza l’uno per l’altro.
Esiste però un altro nemico, più difficile da affrontare e da sconfiggere: è Nam, che diventa sempre più nemico e prigioniero di se stesso. Il suo passato, le sue idee, i suoi valori vengono messi in dubbio dalle circostanze esterne creando un blackout mentale dal quale non può essere salvato. Come reagire quindi alle novità, alla scoperta che esiste un nuovo modo davanti al quale è troppo tardi per chiudere gli occhi, sentendosi liberi di fare le proprie scelte?
In teoria sarebbe questa la risposta, ma Kim Ki-duk ci ricorda, con un certo cinismo, che la realtà non è sempre come la vediamo. Siamo un po’ come pesci imbrigliati in una rete dalla quale non ci si può più divincolare. Tutto dipende dalla società in cui viviamo e dalle regole scelte da altri, alle quali siamo obbligati a sottostare. Nella Corea del Nord è normale salutare i propri vicini chiamandoli compagni mentre qualche chilometro più a sud nessun si stupisce se si spreca del cibo o se si butta via un computer.
Il prigioniero coreano è un film politico che mette in risalto alcune questioni etiche senza però prendere posizioni. Non è un atto d’amore verso la propria patria ne compie un attacco verso la dittatura comunista. Dev’essere visto quasi come un documentario che racconta le cose in maniera neutra, proprio come le vede la telecamera. Il lato negativo di quest’approccio può essere quello di spiazzare ed essere poco credibile da uno spettatore abituato a risolvere i problemi in un altro modo, arrivando persino a tradire se stesso e le proprie convinzioni per salvare la pelle.