
Il ragazzo selvaggio, Tarzan ha 12 anni e vive in Francia (senza scimmie)
Il primo a parlarmi de Il ragazzo selvaggio (1970) fu il mio professore di Filosofia, un vero luminare che però non era noto per consigliarci film leggeri, quindi il suo suggerimento fu accolto da una totale indifferenza da parte della classe.
Io però, da vera allegrona quale sono, mi sono incuriosita e, superato il mio radicato pregiudizio verso il cinema francese, ho deciso di dedicare due ore della mia vita a Truffaut e ammetto di non essermene pentita. Anzi, mi è proprio piaciuto.
Badate bene: divertirsi è un’altra cosa, perché Il ragazzo selvaggio ha un ritmo molto lento e la suspance non sa nemmeno dove stia di casa. Siamo però di fronte a un lavoro di indubbio pregio, non fosse altro perché tratta di una storia vera che offre molti spunti di riflessione.
Target: leopardiani di professione, aspiranti insegnanti, appassionati di cause perse e insonni.
No dai, scherzo.
1, Parigi: all’Istituto per Sordomuti è arrivato un nuovo ospite, il piccolo selvaggio/Jean-Pierre Cargol, catturato nella foresta dell’Aveyron. Cammina a quattro zampe, si nutre solo di ghiande, non parla, né sembra capire alcun idioma.
È sordo e ritardato, meglio lasciarlo in istituto, dicono i medici, con buona pace di Rousseau. Di diverso avviso è invece il dottor Jean Itard/François Truffaut: il bambino si comporta così perché è cresciuto nel bosco dove è stato probabilmente abbandonato in tenera età, senza alcun contatto con la civiltà; se lo si educasse lo si potrebbe reinserire nell’umano consorzio.
Inizia così la missione pedagogica di Itard, che prende con sé il ragazzo, che chiama Victor, e lo porta in campagna, aiutato da Madame Guerìn/Françoise Seigner.
Stabilire una comunicazione con Victor non è semplice, il quale però inizia a compiere timidi progressi, soddisfacendo piccole richieste ed imparando qualche parola. Rimane però il fondato timore che il bambino scappi per tornare nella sua amata foresta, l’unica casa che abbia mai avuto.
Dunque: come già detto, Il ragazzo selvaggio non è un film per chi cerca emozioni forti, non essendo particolarmente ricco di dialoghi né di grandi eventi, al di là dei piccoli progressi compiuti da Victor. O dalle punizioni inflittegli da Itard.
A tenere banco è infatti il difficile rapporto maestro – allievo, costellato di fallimenti, successi, litigi e momenti di intenso affetto.
Truffaut non si è inventato nulla: la pellicola segue pedissequamente i diari del vero pedagogista Itard, che pare fosse molto più padrone che pacifico padre adottivo nei confronti del piccolo randagio.
L’uso del bianco e nero, l’ottima regia, discreta ed efficace, attenta a non indorare i fatti e a sottolineare il messaggio – l’educazione è la base dell’integrazione e anche il selvaggio può inserirsi nella società – e la colonna sonora (musiche di Antonio Vivaldi) sono i punti forti di un film che merita di essere visto.
Eccellenti anche le interpretazioni di Truffaut e del piccolo Jean-Pierre Cargol, che punta tutto sull’espressività, visto che parlare proprio no.
Ma la grande domanda è: alla fine Victor ha imparato a parlare?
Concedetemi un piccolo appunto: il film è molto ottimista, Victor sembra una farfalla che non aspetta altro che uscire dal bozzolo e Itard ha la chiave per aprire il forziere di meraviglie insite nel fanciullo.
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La realtà è sempre meno poetica della finzione, purtroppo. Il selvaggio dell’Aveyron non imparò mai a parlare, se non qualche semplice vocabolo, e il suo maestro, dopo sei anni di tentativi, gettò la spugna.
Madame Guerìn se ne prese cura fino alla morte, avvenuta nel 1828. Aveva circa quarant’anni.