Entri dalla porta principale. La tua carriera dipende da te, ricorda. (The Secret of My Success, 1987, Herbert Ross)
Tutta colpa di Michael J. Fox, lo so. Pure di Melanie Griffith, e di tutti quei film in cui sogni si avverano sempre, in cui le impennate di carriere hanno del miracoloso e in cui soffiare un posto al proprio capo non solo è un gioco da ragazzi ma è la regola numero uno per sentirsi professionisti arrivati.
Noi nati negli anni ‘80/’90, da ragazzini, ne abbiamo guardati a palate di film dalla motivazione facile. E di sicuro ci siamo illusi che la carriera coi fiocchi l’avremmo fatta pure noi.
Perché, invece, la nostra generazione non sembra combinare granché?
Perché ci chiamano generazione nostalgia, generazione mille euro, generazione cavia? Perché non riusciamo ad avere il successo sognato, a prenderci uno stipendio a vita che almeno sfiori i mille euro, ad arrivare alla pensione (la pen… che?)? A dire ai nonni che Sì, la laurea ci è servita alla grande!, mentre invece rispondiamo ai colloqui che No, non abbiamo esperienza, solo la lode. E le opportunità si dileguano, così come le grandi occasioni, quelle in cui ci avevano detto di credere, prima di arrivare ai trent’anni.
L’incoraggiamento, infatti, non ci è mai mancato. I nostri genitori, generazione di bambini nati nel boom (non sotto i boom) che col diploma dirigevano le aziende, ci hanno incoraggiato ad inseguire sogni a palate. E con loro, i nostri film-genitori: storie di successi, di cose impossibili che succedono proprio a te (sì, a te), cinema quanto mai rilassato e bello, come è bello saltare sui letti a una certa età (dopo inizi a pensare alle doghe che si spezzano e la vita è triste).
Per citarne almeno tre: Il segreto del mio successo, Una donna in carriera, Big.
Big (1988, Penny Marshall, con Tom Hanks) è uno dei miei film preferiti. Ma è colpa sua se da bambina non vedevo l’ora di crescere e se da grande mi ostino a rimanere bambina. Il risultato è una via di mezzo che si chiama insoddisfazione (ma che gli altri chiamano infantilismo) e una perenne disillusione dovuta al fatto che in Italia non esistano aziende di giocattoli che assumano sulla fiducia (o aziende che assumano).
Il segreto del mio successo (The Secret of My Success, 1987, Herbert Ross) parla invece di un’ascesa sociale, oltre che professionale, di un giovane campagnolo del Kansas (eccolo, è lui, è Michael J. Fox) che si trasferisce nella Grande Mela. Solo che, al contrario di oggi, dove al massimo ti prendono per impacchettare cheeseburger, quello sa come muoversi tra scrivanie vuote dietro cui fingersi qualcun altro per dimostrare quanto è in gamba e ottiene un lavoro con un monologo brillante e due frasi fatte messe in croce:
Che esperienza hai?
In pratica nessuna. Ma credo in me stesso. So che potrei fare qualsiasi cosa se ne avessi l’occasione.
Certo, siamo nel 1987, le occasioni sono in saldo, tutti possono fare qualsiasi cosa e un diploma vale più di un dottorato. Ma almeno il film ha una visione molto più ironica del sogno americano, e nonostante l’impennata vertiginosa della carriera di un tizio che, fondamentalmente, sta tutto il giorno a bloccare ascensori nella città in cui senza un ascensore muori, sembra che a certi decolli non ci creda davvero nemmeno chi lo ha scritto.

Una donna in carriera (Working Girl, 1988, Mike Nichols). Qui, invece, alle impennate di carriere, sembrano crederci davvero, nonostante il film sia diretto da chi ci ha regalato Il laureato una ventina di anni prima, ma forse sul serio è tutta colpa del decennio in questione. Siamo sul confine degli anni ’90, quando le donne d’ufficio portavano spalline così ampie da evidenziare spalle larghe e carattere forte, e Tess (Melanie Griffith) ottiene un lavoro. Fa la segretaria, anche se pensa di meritare di più (ma che ingiustizia!) e il suo capo (donna coetanea, interpretata da Sigourney Weaver) la tratta da schifo, ribadendo chi c’ha la spallina più larga. Con mezzucci un po’ antifemministi (corre a piangere dall’uomo potente di turno, interpretato da Harrison Ford) e una discreta dose di culo (lo sceneggiatore rompe una gamba alla Weaver per permetterle di scavalcarla mentre è assente) alla fine riesce a soffiare all’odiosa dirigente la sua bella e sognata posizione, sulle note esplosive e motivanti di Let the River Run (Carly Simon), canzone che nel ’89 si portò a casa pure l’Oscar.
Guardi questo film da adolescente e pensi che, spalline a parte, la tua vita professionale potrebbe andare davvero così, tanto la giustizia trionfa sempre. Poi stai per finire l’università, arriva il 2008, e Virzì ti racconta un’altra storia, con Tutta la vita davanti.
Altro che carriera, ormai c’è la crisi e Marta (Isabella Ragonese) laureata con lode in filosofia non riesce a trovare lavoro (siamo ancora convinti che Tess fosse una povera segretaria infelice?). Si accontenta di essere presa in un call center e anche lei ha per boss una donna che soffre un po’ di invidia (Sabrina Ferilli), ma non ha nessun uomo potente con cui lamentarsi e che l’aiuti col lavoro (uno ci sarebbe, è persino un sindacalista – Valerio Mastandrea – ma siamo nell’epoca in cui il sindacato tradisce). Per di più, la canzone che parte alla fine del film non carica lo spettatore di brillanti aspettative sul futuro.
Ma poi, chi ha voglia, oggi, di raccontare successi lavorativi?
Chi se la prende la responsabilità di illudere quelli che cresceranno fra vent’anni? Persino raccontare storie vere di personaggi che hanno fatto soldi a palate fa mettere la lente di ingrandimento sul lato meno vincente e più miserabilmente umano.
Laureato = Arrivato? Ricco = Infallibile? Anche no.
Scorsese, nel 2013, lo fa con Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street (sì, hai fatto tanti soldi, amico mio, ma quanta merda hai pestato?). David O. Russell (che c’ha proprio un debole per il lato perdente dei suoi personaggi) con Joy, nel 2015 ci racconta di Joy Mangano (quella che ha inventato il mocio figo) come fosse, quasi, la storia di un fallimento.
E quindi noi trentenni che facciamo?
Urliamo contro Carly Simon, contro le nostre grandi aspettative che ci hanno un po’ impedito di crescere davvero? Oppure ci attacchiamo al vecchio, al ricordo di qualcosa che nemmeno abbiamo realmente vissuto, alle generazioni passate, migliori, e applaudiamo ai film pieni di omaggi che ci riempiono lo stomaco di quella soddisfazione del saper guardare indietro?
La nostra è la generazione nostalgia, è vero: chi diavolo se lo fila il futuro?!
Magari la nostalgia aiuterà a rifarsi un’idea del tempo in cui ci troviamo, a metterci sotto esame, per consegnare consapevolezza alle future generazioni, almeno quella. E intanto aspettiamo non si sa bene cosa, come degni rappresentanti di una nuova sindrome, quella di Telemaco. Telemaco (il figliolo di Ulisse) è colui che aspetta il ritorno del padre, che guarda il mare, che è cresciuto coi racconti di un’eroe da cui trarre ispirazione. Come Telemaco, anche noi guardiamo l’orizzonte (l’avvenire), e aspettiamo il ritorno di qualcosa di eroico. Aspettiamo il lavoro, una personale realizzazione. Eppure realizzazione deriva da realizzare, che un po’ è l’opposto di aspettare.
Che fare, dunque, cogliere l’attimo, come suggeriva il professor Keating ne L’attimo fuggente? Certo, lui citava Orazio e diceva alle giovani menti carpe diem, ma era il 1989. L’avrebbe detto anche oggi? Come si fa a cogliere l’attimo, se appena lo cogli cambiano tutte le carte in tavola? Ogni cinque anni sembra non vada bene quello che hai fatto cinque anni prima (dai crediti universitari ai tipi di contratti che non esistono più).
Let the river run, let all the dreamers wake the nation
Diceva la Simon, e in quanto sognatori non ci batte nessuno, ma forse dovevamo svegliarci un po’ prima, farci inculcare i sogni da grandi. Guardare certi film dai trent’anni in su. Ispirarci a Michael J. Fox sulla sola scelta delle scarpe. O forse non c’entra cosa è meglio, siamo la generazione che chiamano cavia e basta. Sono comunque convinta che oggi Keating non citerebbe affatto Orazio, o per lo meno non alla lettera, perché non esiste un diem, non è più una questione di attimi.
Forse direbbe “Cogli il decennio, e fattene una ragione”.