
Il Seme della Follia: Carpenter e il suo atto d’amore per Lovecraft
Il capolavoro di John Carpenter, la summa della sua poetica/politica, una storia da brividi: Il seme della follia
L’ARTICOLO CONTERRA’ SPOILER
La trama
Sutter Cane è sparito.
L’autore del secolo, colui che colleziona un successo da capogiro dopo l’altro, si è volatilizzato insieme al suo ultimo best-seller da brividi. La sua casa editrice chiede un risarcimento milionario alla sua assicurazione, che invia un infallibile agente privato per fare luce sulla faccenda.
Il protagonista è Sam Neill (il dottor Alan Grant di Jurassic Park, quello vero, non quel putridume di Jurassic World) nei panni di John Trent, pragmatico indagatore di quell’incubo che gli si va dipanando di fronte; il film è Il seme della follia (1994), capitolo conclusivo della Trilogia dell’Apocalisse (La Cosa, Il signore del Male) di John Carpenter.
Unica certezza: il cinema
Il film è in realtà un grandioso flashback in cui Sam Neill, definitivamente impazzito e rinchiuso in manicomio, racconta come si è arrivati a quelle cose strane che succedono là fuori, cose che non dovrebbero poter succedere; cose che hanno a che fare con i libri di Sutter Cane.
Carpenter imbastisce una storia onirica, tutta giocata sulla distinzione fondamentale tra cosa è reale e cosa non lo è, ma lo fa a modo suo, mettendo in luce la fondamentale inumanità dell’uomo, la sua ferocia. Con questo terzo capitolo l’Apocalisse è completa e manifesta, non c’è speranza di salvezza e il discorso non viene troncato a metà come nel finale sospeso de La cosa.
Travestendola da road movie, il regista ci racconta una storia attorcigliata su sé stessa, che si dipanerà solamente in un finale assolutamente pessimistico e rischiarato da una grande certezza: il cinema è l’unico portatore di verità. E così, mentre John Trent esce dal manicomio e si aggira per le vie deserte di un’umanità scomparsa, l’unico luogo dove trova un barlume di verità, dove finalmente trova la prova definitiva alla sua “indagine”, è proprio quella sala cinematografica che proietta il film della sua vita.
Abdul Alhazred, il Necronomicon e i miti di Chtulhu
Ne Il seme della follia Carpenter reimmette tutte le sue fonti di ispirazione, le sue auctoritates che lo hanno portato ad essere uno dei veri e propri Masters of Horror (titolo, tra l’altro, di una serie tv a cui lo stesso Carpenter ha collaborato dirigendo un episodio). Ovviamente la fonte principale è Howard Phillips Lovecraft, vero e proprio rifondatore del genere orrorifico che – tra 1917 e 1937 – diede una propria personale rilettura al genere, scardinandolo dalle coordinate di Edgar Allan Poe e inserendo un gusto per l’onirico e il colossale.
Gli Antichi di Lovecraft (Chtulhu è il più celebre) sono creature che giacciono nelle profondità abissali e aspettano di essere risvegliate per porre termine al dominio degli uomini, un periodo risibile e infinitesimale se paragonato alla loro immensa eternità. Carpenter – così come Fulci, Raimi e Stuart Gordon – si rifà a questo tipo di immaginario, un immaginario in cui la pochezza dell’uomo è manifestata dal fatto che appena entra in contatto con la nera immensità del mondo dei mostri (il “Sottosopra” di Stranger Things, tanto per capirsi) impazzisce, perde il senno.
Sutter Cane non è altro che il nuovo profeta del male, che in Lovecraft era incarnato dalla misteriosa figura dell’ arabo pazzo Abdul Alhazred, autore del Necronomicon.
Il superamento di Lovecraft
Carpenter però fa di più e attraversa la poetica lovecraftiana per approdare a una più compiuta definizione: mentre lo scrittore di Providence si limitava a descrivere l’orrore e i suoi effetti sul senno dei malcapitati, Carpenter svela cosa c’è dopo della venuta degli Antichi. Con un trucco d’alta scuola il regista fa sì che l’Apocalisse non inizi alla fine del film – quando sarebbe più lecito sospettarlo – ma sia già in atto ancora prima che cominci, quando Cane ha già il potere di tramutare le sue parole in realtà e di far collimare la dimensione dei mostri con la nostra.
Il seme della follia è anche un meta-film che a un certo punto si avvolge in un loop che imprigiona la storia, la cristallizza e la ripete sullo schermo del cinema. Una meravigliosa metafora di quello che abbiamo appena visto e di quello che è il cinema secondo Carpenter: un portatore di verità capace, al contempo, di distogliere dall’orrore della vita là fuori e di descriverlo impietosamente.
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