
Il traditore: lo splendido Favino è Buscetta, il boss che piegò Cosa Nostra
I miei amici considerano un peccato capitale il passare il sabato sera al cinema, specie d’estate: gli stolti non comprendono la bellezza di una sala (ahimè) semivuota, dell’aria condizionata e – soprattutto – dei 135 minuti di un film come Il traditore, l’ultima e riuscitissima fatica del maestro Marco Bellocchio.
Anni ’80: Palermo è insanguinata dalle faide tra le vecchie famiglie mafiose e quella nuova e dirompente dei Corleonesi, capeggiata da Totò Riina/Nicola Calì, che è ormai il signore di Cosa Nostra.
Tommaso “don Masino” Buscetta/Pierfrancesco Favino, sapendo di essere in pericolo, si rifugia in Brasile con la moglie e i figli più giovani: i due maggiori sono lasciati alle amorevoli cure dell’amico fraterno e compagno di cosca Pippo Calò/Fabrizio Ferracane.
Nonostante tutte le accortezze, nel 1972 Buscetta viene arrestato ed estradato a Roma: qui incontra il giudice Giovanni Falcone/Fausto Russo Alessi con cui, superate la diffidenza iniziale, stringe un rapporto di reciproca fiducia.
Siamo ad un punto focale della lotta alla mafia: don Masino diventa, a suo rischio e pericolo, il primo collaboratore di giustizia della storia, svelando al magistrato i segreti della Cupola, tanto da rendere possibile la celebrazione, nel 1983, di quel Maxiprocesso che vede imputati i più potenti boss della malavita.
Premiato col Nastro d’argento – Marco Bellocchio non è certo nuovo a tradurre sullo schermo i più scottanti misteri del nostro Paese (tra gli altri, l’ottimo Buongiorno, notte): con Il traditore ha tentato una mossa azzardata ma brillante, concentrandosi non sui “buoni” – Falcone, Borsellino gli e altri eroi della lotta alla mafia – ma su uno dei “cattivi”, Tommaso Buscetta, il boss dei Due Mondi.
L’intero svolgimento de Il traditore segue il punto di vista di don Masino, la cui figura non ne esce santificata, anzi, Bellocchio tiene comunque a sottolineare – sostenuto dalla parole dello stesso protagonista, che non si riconosce nel termine “pentito” – che Buscetta è e rimane un mafioso e si allontana da Cosa Nostra solo perché non ne condivide il modus operandi imposto da Riina.
Un personaggio tragico e controverso, don Masino: amante del lusso e delle donne, totalmente disinteressato al potere, uno sconfitto per sua stessa ammissione.
E a impersonare questo mix di forza e debolezza c’è un somigliantissimo Pierfrancesco Favino magistrale, fresco di Nastro d’argento, che, pur non rendendocelo simpatico – troppe colpe gravano su di lui – restituisce una dimensione umana a un personaggio che per molti è solo un nome letto sui giornali.
Se Falcone ne Il traditore rimane un po’ sullo sfondo, pur essendo i colloqui tra lui e Buscetta tra i momenti più emozionanti del film, Favino deve confrontarsi con un mostro come Luigi Lo Cascio nella parte di Totuccio Contorno – anche lui Nastro d’argento, ex aequo con Ferracane -, l’altro pentito con la pistola sempre in mano, una polveriera pronta ad esplodere che parla solo siciliano, complemento perfetto alla compostezza e al discreto italiano di Buscetta.
E poi c’è Pippo Calò, forse il vero cattivo della storia, anche più di Riina: il “cassiere della mafia” ci risulta odioso per il legame che lo unisce a Buscetta e che tradendolo recide di netto. Nelle scene del processo un imperturbabile Ferracane dà il meglio di sé, dando vita ad un botta e risposta con Favino che tiene lo spettatore con gli occhi incollati allo schermo, in attesa di una conclusione che in effetti non arriva.
Un cast perfetto per un film che se non raggiunge la perfezione, di sicuro le si avvicina moltissimo: Il traditore è un eccellente esempio di quel tanto vagheggiato “cinema civile” e che risponde ad bisogno di educazione che va colmato, se qualcuno beatifica zio Totò, com’è successo quando Riina era ormai più di là che di qua.
Com’è che diceva Borsellino? «Parlate di mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene».