Le gloriose lottatrici di GLOW risplendono, ma non colpiscono.
GLOW è una delle ultime serie Netflix, uscita sulla piattaforma il 23 giugno con un totale di dieci episodi per la prima stagione. GLOW è un acronimo che sta per Gorgeous Ladies of Wrestling e, come si deduce dal titolo, tratta la storia di un gruppo di donne che nel 1985 conducono uno show dedicato al wrestling femminile. Ma “glow“ significa anche splendore, per sottolineare quanto raggianti siano le donne protagoniste.
Dagli inizi di giugno non ho fatto altro che leggere articoli entusiasti su GLOW: osannati i produttori, gli stessi di Orange Is the New Black, che di femminismo e femminilità se ne intendono; osannate le attrici protagoniste, Alison Brie e Betty Gilpin, ma anche lottatrici professioniste; osannata la storia, che dietro glitter, tutine e capelli cotonati nasconde un significato molto più profondo. Le premesse sembravano quindi ottime e l’attesa – o l’hype, come dicono nell’internet – per un simile prodotto di qualità era alta; in fondo Netflix ci sta sempre più abituando a un tipo di televisione di alto livello. Basti pensare a Stranger Things, successo internazionale, ma anche Daredevil, Sense8, Love e molti altri ancora.
Leggendo la trama e le recensioni online, per prepararmi alla visione, è emerso un punto fondamentale: il fatto che GLOW parla di donne, dal punto di vista delle donne, che cercano di riscattarsi. Chi da una misera vita, chi da una vita di stereotipi o falsità, chi ancora da un mondo di uomini, in cui non c’è mai posto per le donne. In questo ambiente maschilista (ma dove anche gli uomini che non sanno rientrare negli standard, annaspano), le uniche armi che hanno le donne sono la reciproca amicizia e la propria forza interiore. La capacità di scoprire in sé una forza e un’autostima nuova, grazie al lavoro sul fisico e sul personaggio che il wrestling impone, è il veicolo di una rinascita femminile.
Il wrestling è uno sport teatrale: le acrobazie sono vere, serve allenamento, ma tutto è fatto per stupire senza far danno. I pugni e i calci si fermano a un centimetro dal viso, gli strattoni sono di scena, così come i salti mortali non ammazzano nessuno. È reale invece l’uso del proprio corpo come mezzo nuovo. Qui le donne riescono a fare una cosa diversa: a usare il proprio corpo, non a mostrarlo. Eppure sembrerebbe il contrario, visti i succintissimi costumi di scena (allarme body sgambati, ripeto, allarme body sgambati!), ma nel wrestling, e in GLOW, c’è una sottile differenza di significato: i corpi strizzati nelle tutine non sono fini a loro stessi, bensì stupiscono e ammaliano per la loro forza. Una forza che spesso le protagoniste trovano dopo un divorzio, un parto, o una lotta interiore; una forza che vediamo nelle splendide gambe e braccia tornite, ma che sappiamo arrivare da molto più lontano.
Ma.
Perché era ovvio che ci fosse un ma.
Se tutto questo era quello che mi aspettavo, stando a quanto avevo letto in giro, quando pochi giorni fa ho iniziato la serie ho scoperto con rammarico di esserne un po’ delusa.
Fin dall’inizio si percepisce la volontà di mostrarci un universo femminile diverso dal solito, e sia l’ambientazione anni ’80 sia il pantheon di protagoniste variegate riesce in questo senso. Il formato da 30 minuti rende anche facilmente digeribile la storia: episodi piccoli, ma ricchi, che si guardano volentieri due alla volta. Purtroppo però l’inizio è lento e sotto tono. Conosciamo Ruth e Debbie, le amiche/nemiche numero uno dello show, ma nessuna delle due è particolarmente simpatica (forse Debbie, ma diciamocelo, è bella e bionda e tettona, la simpatia risulta immediata). Trovo Ruth sfigata in un modo che non suscita alcuna empatia, ma allo stesso modo l’arroganza di Debbie non è buffa né caratteristica. Conosciamo anche le altre lottatrici, e il regista outsider Sam Sylvia (Marc Maron), che hanno delle splendide back stories, più intriganti di quella classica del tradimento tra le due amiche. Sheila the She Wolf, ad esempio: che storia ha? Da dove arriva? Quali sono le sue ragioni? Domande che vengono poste ma lasciate indietro.
Ma il contro principale di tutti i pro che ho elencato prima è semplicissimo: assistiamo al primo scontro solo all’episodio sette. Cioè a tre dal finale di stagione. È chiaramente una scelta registica, quella di voler legare tutte le storie personali per farle crescere e crescere fino all’incontro decisivo; e si sente forte questa intenzione. Ma il fatto è che la tecnica non rende abbastanza, e che se l’episodio durasse il doppio del tempo, lo spettatore medio non reggerebbe.
Non dico che GLOW sia noioso, questo no, è intrigante questo mondo puramente femminile, e ci sono scenette divertenti, ma nel complesso non colpisce nel segno. Forse la volontà di creare un prodotto femminista serio ha sovrastato l’elemento più d’intrattenimento. Il wrestling è dramma, è teatro, è lustrini, latex e colori accesi: tutti elementi di contorno, certo, pressoché inutili e fatti solo per ammaliarci e stupirci, ma che purtroppo si sono scordati di aggiungere a GLOW.