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Into the magic: il Cinema italiano nella magia di Giffoni

Quest’anno al Giffoni Experience si è parlato di magia. Magia che non è fatta solo di bacchette, gnomini e maghi occhialuti, ma di sguardi incantati, filtri di purezza, miracolose necessità. “Into the magic”, la dimensione oltre la realtà, che protegge lo stupore e la bellezza, alla faccia di chi cerca di seminare orrore e di limitare quella libertà di chi di notte vuole ancora sognare. Tanti gli autori che ci hanno raccontato con profonda sincerità la sfida di questo andare oltre: oltre il racconto tradizionale di uno spaccato sociale e mostruosamente nostro, come la mafia in Sicilia; oltre il racconto di guerra, oltre gli incubi, oltre l’immobilità personale e professionale; oltre quell’indivisibile in noi che ci spinge a fuggire dalla realtà che non vogliamo subire. Tanti autori, tante storie, tanti modi diversi di accostarsi alla magia del raccontare e all’incanto del guardare. Tra questi, tre incontri indimenticabili che hanno reso memorabile un’esperienza già magica di suo, che è quella di Giffoni.

1. ANTONIO PIAZZA E LA GHOST STORY OLTRE LA MAFIA SICILIANA

Ad aprire gli incontri, Antonio Piazza, autore e regista (insieme a Fabio Grassadonia) di Sicilian Ghost Story, rielaborazione fiabesca della tragica scomparsa di Giuseppe Di Matteo, piccola vittima della Mafia, rapito tra il 1993 e il 1996, strangolato e sciolto nell’acido, poiché figlio di un collaboratore di giustizia. La storia di Giuseppe spesso si cita ma poco si conosce davvero, tanto che gli stessi Gaetano Fernandez e Julia Jedlikowska, giovanissimi interpreti di Giuseppe e Luna, hanno confessato di non averne mai sentito parlare. Tuttavia, gli autori non volevano raccontare semplicemente ciò che è stato, ricostruire una vicenda, girando un film sulla mafia, tradizionale. A modo loro volevano raccontarci di Giuseppe prima di tutto attraverso il filtro di uno sguardo ancora incantato e puro, come quello di un’età in cui ogni cosa prende una piega magica, senza saperlo o senza volerlo. E poi, forse, volevano restituirgli qualcosa, l’amore, l’amicizia, lo spettro di tutto quello che non ha mai avuto il tempo di vivere.

Furono 779 i giorni di prigionia. Tra i 13 anni e i 15 anni, in quei 779 giorni, un bambino qualunque diventa ragazzo, scopre il suo mondo, fa sogni grandi, impossibili, e si innamora. Nemmeno li conta, quei giorni, nemmeno li sente. Sono solo anni di scuola che passano tra un brutto voto e qualche lite. Giuseppe invece li conta tutti, e da bambino si fa prima uomo, poi fantasma.

La fiaba di Giuseppe e Luna (personaggio fittizio) inizia tra i boschi siciliani, con lettere segrete, farfalle, gufi e cani che ringhiano. Poi Giuseppe scompare e Luna non si dà pace. Nonostante l’omertà degli adulti, lo cerca e lo trova in un mondo onirico e misterioso fatto di acqua, fusti e cortecce, pietre millenarie. Oltre al dramma della separazione e alla frustrazione data da quel senso di giustizia che non appartiene a nessuno dai 13 anni in su, ha un rapporto conflittuale con la madre, perfetta matrigna cattiva, o donna di quegli anni, per cui un pentito è un fetente, e guai a frequentarne il figlio.

I rapitori di Giuseppe sono ritratti come piccoli orchi e bozzetti di mostri, stupidi e inetti, finalmente poco epici e lontani dalle figure cariche di pathos e potenza narrativa che tanto fa breccia nei cuori di chi cerca ispirazione nei mafiosi (e poi magari ne pretende quella certa dignità di cui tanto si è parlato quest’anno, dignità che non esiste, così come non esiste un codice d’onore in un mondo del genere). Perché sì, il Cinema civile è importante, impegnato, schierato, giusto, ma crea una collezione di santini, volutamente edificanti, cadendo in quel binomio di buono e cattivo che non basta più. La ghost story di Grassadonia e Piazza proietta la storia di mafia al di là del senso civico, la trasforma come i bozzoli fanno coi bruchi, come i sogni fanno con l’adolescenza, conferendole meraviglia, nonostante l’orrore.

Forse non si può cambiare il mondo ma puoi cambiare te stesso e la persona che ami. Dice Antonio Piazza.

Come in Salvo (2013), come in Rita (2009), anche qui l’amore crea quella sorta di miracolo, quel vedere inaspettato. Crea magia, e la magia è vita, o quantomeno voglia di vivere ancora, e di vedere come andrà a finire.

2. FABIO GUAGLIONE, FABIO RESINARO E I SEGRETI DI MINE

La magia di Mine è invece legata più ad un andare oltre (anche oceano) i generi. Non è un war movie in senso tradizionale, ma conserva nella sua traccia narrativa l’alchimia di variegate influenze (spiegano Fabio&Fabio) che fa del simbolo la chiave di interpretazione di una storia che, guerra a parte, racconta di un blocco che riguarda spesso ognuno di noi: lo stare al mondo. Mine è un’opera prima, e come lo definiscono Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, talentuosi registi ex compagni di scuola, è un film rischioso e ci hanno anche confessato perché: solo apparentemente si tratta di un war movie, considerato che è oggettivamente lontano dai tanti luoghi comuni sui conflitti raccontati al cinema. Ci piaceva l’idea che fosse una sottotraccia carica di simbolismi, in cui si riuscisse a superare le rigide frontiere dei vari generi. Un film che non parla tanto di soldati sulle mine, ma di uomini bloccati su quei traumi pronti ad esplodere dentro, come incubi ad occhi aperti, portatori di miraggi e illusioni.

Ci piace raccontare storie secondo la nostra visione del mondo, e quindi dentro c’è tanto esoterismo, c’è tanto simbolismo, tanta filosofia, anche un po’ di nerderie ogni tanto. Ce lo raccontano sorridendo, con una luce negli occhi di chi prima ancora di girare film divorava fumetti e si appassionava alla magia del racconto. Non volevamo fare un film politico, non era un film sulle mine antiuomo. Al massimo è un po’ sociologico, è sull’incontro tra culture.

Interessante, infatti, è anche la visione antropologica dell’uomo occidentale incarnata nella figura del soldato (Armie Hammer) in antitesi alla figura del Berbero (Luigi Ferraro). L’occidentale tende ad identificarsi con ciò che ha spiega Guaglione. L’attaccamento al possesso, a ciò che è proprio, a ciò che si è costretti a lasciar andare, al peso del mondo sulle proprie spalle. E il soldato, durante la tempesta di sabbia, ricorda proprio una tra le sculture di Atlante: stessa posa, stesso peso sulla gamba, stesso inchino. Entrambi reggono tutto il proprio mondo. Solo il Berbero sa come lasciar andare, che passo fare, come superare un campo minato dalla perdita e dal dolore.

3. EDOARDO DE ANGELIS E MARIANNA FONTANA E LA POESIA DI INDIVISIBILI

Con Indivisibili si torna al filtro dell’adolescenza, il non ancora compromesso sguardo di chi vede la propria vita indivisibile dal sogno, dall’illusione, dalla libertà. Di magico c’è soprattutto la regia di Edoardo De Angelis, visionaria, mistica, suggestiva, poetica, capace di incantare turbando profondamente come il miracolo fa con i fedeli e la favola fa coi bambini.

La storia di queste due gemelle siamesi è un road movie che segue le regole di Propp, raccontata nella lingua di un’Italia credibile, vera e verace, fatta di tanti piccoli mostri, orchi cattivi, fate innocenti e madonne carnali. La famiglia di Viola e Dasy (Angela e Marianna Fontana, quest’ultima presente insieme a De Angelis a Giffoni) vive grazie alle esibizioni delle due ragazzine, famose per essere attaccate l’una all’altra, indivisibili, in uno spaccato sociale fatto di orride rappresentazioni di misticismo, nuovi idoli, vecchi cristi abbandonati in battigia. Viola e Dasy sono legati all’altezza del bacino, se una si masturba l’altra fa sogni erotici, se una beve l’altra si ubriaca, il sangue circola e passa da una all’altra. Eppure sono diverse, una ribelle l’altra devota, una forte, l’altra forse di più. Il loro è un passo legato ad una sincronia fatta di rinunce e condivisioni, dove il ritmo è tutto. È sangue, è pulsazione, è musica, è integrazione.

Quello che ho pensato quando ho deciso di fare questo film era che potesse essere un racconto emblematico di quanto noi stessi siamo dilaniati da sentimenti che si muovono in direzioni opposte. Paura e desiderio ci portano in direzioni contrarie fino a lacerarci, spiega De Angelis, Dasy e Viola non sono due personaggi della storia, sono due facce del nostro modo di essere. Aggiungerei anche due facce dello stesso paese, lacerato dai sensi opposti in cui spingono il vecchio e il nuovo, tanto da rendere stantia e corrotta ogni idea di accoglienza, rinascita culturale e possibilità.

Il cinema raccontato al Giffoni Experience è qualcosa di unico, difficile da descrivere, come la magia a chi non la vede con i propri occhi. Un festival che cura, nutre e rende felici.

Senz’altro il più necessario e a dirlo fu Truffaut, trentacinque anni fa.

Lucia Perrucci

La mia prima babysitter fu una Super 8. Non scherzo, mio padre mi teneva tra i rullini da sviluppare. Mia madre invece mi faceva sedere sui libri, secondo me non voleva che li aprissi, perché sapeva sarebbe stata la fine. Mischio storie e immagini da sempre, a volte mi fa girare la testa, a volte mi fa girare cortometraggi (che a volte mi fanno girare il mondo). Scrivo di cinema perché guardare non mi basta.
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