Film

Io sono l’amore: il fascino troppo discreto della borghesia

Se vi chiedessero il primo nome di regista italiano che vi viene in mente, probabilmente la maggior parte di voi risponderebbe, trascinata dalla moda del momento, Luca Guadagnino, colui che è stato capace di portare la Bassa a Hollywood e di reinterpretare gli horror nostrani d’antan. Mossa dalla curiosità, ma decisa a non seguire le masse, ho deciso di approcciarmi al cineasta palermitano attraverso uno dei suoi primi lavori, Io sono l’amore, del 2009.

Devo ammettere che il motivo principale che mi ha spinto alla visione di questo film è il luogo in cui è stato girato: nientemeno che Villa Necchi Campiglio, il non plus ultra per un’aspirante sciura milanese. Peccato che gran parte del fascino di Io sono l’amore si fermi lì, o comunque non si azzardi ad andare oltre la circonvalla. La cosa più riuscita sono i titoli di testa, una serie di immagini di una Milano innevata da cartolina. Dopodiché, la noia. Elegantissima, ma pur sempre noia.

La storia è presto detta, e non si tratta di nulla di nuovo; ma la settima arte è zeppa di capolavori che raccontano cose arcinote. Purtroppo non è questo il caso: protagonista è la solita borghesia, e il modo in cui viene raccontata è esattamente quello che ci aspetteremmo – bei vestiti, bellissimi ambienti, qualche insoddisfazione, un pizzico di tragedia e una lentezza straziante. La famiglia dei Recchi, ricchi industriali lombardi, si riunisce per il compleanno del nonno, il quale decide di lasciare le redini del suo impero al figlio Tancredi (Pippo Delbono) e contemporaneamente al più sensibile dei nipoti, Edoardo (Flavio Parenti), che indovinate un po’, non ne ha mezza di fare il capitalista rampante e senza scrupoli. Molto meglio finanziare il ristorante immerso nelle campagne dell’amico Antonio (Edoardo Gabbriellini) e intrattenersi con la fidanzata e futura sposa, la quale ovviamente proviene da una famiglia meno abbiente e si attira gli sguardi lievemente sprezzanti della nonna del bell’Edoardo. Sullo sfondo Alba Rohrwacher nell’unico ruolo che le lasciano fare: sorella minore di Edoardo, aspirante artista dall’aria insicura e dai turbamenti sentimentali su ambo le sponde.

Ma colei che cattura la scena, e c’è da dire che ha gioco facilissimo nel farlo, è Tilda Swinton, alias Emma: moglie russa ed elegantissima di Tancredi, decide di colmare i vuoti affettivi intrattenendosi con Antonio. D’altronde si sa, il proletariato ha sempre esercitato il fascino del proibito sulle madame annoiate. Inutile dire che la tresca verrà scoperta, che Emma non vorrà sentire ragioni perché per la prima volta è davvero innamorata, e che le conseguenze non saranno affatto piacevoli.

Io sono l’amore ha una fotografia a dir poco perfetta: ma allora sarebbe meglio parlare di un documentario sulle bellezze di Milano, anziché di cinema. Le inquadrature ci sono, i dialoghi nì, il ritmo per niente: dopo una ventina di minuti si inizia a capire perché la povera Emma abbia deciso di ammazzare la noia con un cuoco di vent’anni più giovane.

Il problema non è tanto nei contenuti, quanto nello stile. Io sono l’amore sembra, per continuare a parlare milanese, una sfilata di Prada: vorrebbe stupire, mentre in realtà lascia perplessi, se non addirittura un po’ appisolati. Naturalmente ha vinto un Nastro d’Argento.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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