Se avete odiato o amato il film di Genovese non importa, sicuramente non sarete rimasti impassibili di fronte all’artificio narrativo messo in scena. Beh la farina è tutta del sacco di Christopher Kubasik, creatore di The Booth at the End.
Se qualcuno di voi ha avuto la sfortuna, come il sottoscritto, di leggere la recensione di The Place uscita su Rolling Stones nel novembre 2017 capirà perché si sono meritati la Lucarelli.
Loro, come altri, hanno subito idolatrato Paolo Genovese come narratore dell’umanità contemporanea senza sottolineare che c’è un problema fondamentale: non appena apri gli occhi sul contesto che ha generato il film il castello di carta crolla rovinosamente. Nei titoli del film appare la scritta Ispirato a: The Booth at the End. Ecco io avrei preferito un più onesto Restyling in italiano di: The Booth at the End.
Un po’ come se andate in un pub e suona una cover band dei Guns N’ Roses, i casi sono tre: siete fan e sventolate gli accendini di default, avete le palle piene dei Guns e scappate a gambe levate oppure non avete mai ascoltato musica in vita vostra e questi 4 ragazzini vi sembrano dei geni.
Beh il successo del film italiano si basa tutto su quest’ultimo caso perché sappiate che The Place non è altro che la cover di The Booth at the End.
MA QUINDI COS’È STO THE BOOTH AT THE END?!
Presto detto! The Booth at the End è una serie tv prodotta da FX e trasmessa per la prima volta dal canale canadese City nel 2010. Il creatore è il già citato Christopher Kubasik, che immagina questo personaggio senza nome impersonato da un grande Xander Berkeley (George Manson di 24 o Gregory di The Walking Dead).
La narrazione surreale è ambientata sulle panche di una tipica tavola calda americana (il Booth del titolo) dove il protagonista incontra un abaco variegato di esseri umani animati da un pensiero comune: realizzare i propri desideri.
Quasi tutti pensieri innocenti, anche altruisti a volte. C’è chi vuole salvare la vita di un caro, chi diventare più affascinante, chi guadagnare abbastanza soldi da poter vivere in serenità. Senonché lo scotto da pagare si rivela molto più salato del previsto.
Stragi, omicidi, inganni e menzogne sono alla base delle richieste del misterioso protagonista che passa il suo tempo seduto al tavolo del ristorante. E qui a mio parere c’è il primo grande errore di Genovese, che incentra tutta la rivisitazione sul titolo a effetto del ristorante The Place. Ma il punto nella serie è proprio l’indefinitezza del luogo per cui che senso ha nella versione italiana il fatto di far vedere un’insegna rosa al neon? Alaska era un altro film, per la cronaca.
QUANDO I PICCOLI DETTAGLI FANNO LA DIFFERENZA (IN PEGGIO)
Se state ancora leggendo è perché vi siete resi conto che, forse, tutti i torti non li ho.
Assodato il paragone tra pezzo originale e cover analizziamo le differenze tra The Booth at the End e The Place. Sul problema titolo/insegna mi sono già espresso e penso che il logotipo da macchina da scrivere del titolo della serie funzioni molto meglio. Perché focalizza l’attenzione non sul luogo ma sul libro del protagonista, quindi sulla vicenda in sé.
Secondo punto debole è l’ambientazione. Nella serie americana la narrazione avviene in un’anonima tavola calda lungo una strada trafficata come ne abbiamo viste a dozzine nei film americani. Il The Place di Genovese invece è lo stereotipo del locale alternative-chic in voga ultimamente nelle grandi città, non proprio lo stesso concetto e forse non così azzeccato come nell’originale.
Unica lancia che voglio spezzare a favore del nostro Paese è l’interpretazione corale degli attori italiani (a parte la Ferilli che stava tanto bene sui sofà). In questo momento sono il meglio che ci possiamo permettere e diciamo che in generale non siamo messi per niente male. Però anche qui siamo ben lontani da una vetrina di virtuosismi.
Marco Giallini è il solito poliziotto, Rocco Papaleo è il solito buzzurro, Muccino è il solito cattivo ragazzo. Per fortuna c’è Valerio Mastandrea che non fa rimpiangere Xander Berkeley. In generale il problema di quelli di The Booth at the End è che sono dei completi estranei per noi mentre le controparti italiane sono tutte star pluripremiate (qui).
QUAL È IL MORALE DELLA FAVOLA?
Contestualizzare.
Quello che diciamo, quello che guardiamo, quello che pensiamo. Solo così possiamo cominciare a esprimerci e relazionarci con il mondo che abbiamo attorno. Cosa che The Place purtroppo non fa.
Ed è un peccato perché per colpa delle piccole modifiche che fa rispetto all’originale si perde il senso della creazione di Kubasik, ovvero cos’è questo tavolo alla fine? Il finale della versione italiana a mio avviso confonde e vanifica tutto.
Il ristorante, il libro, Lui, sono un tutt’uno presente in ognuno di noi, sono la nostra coscienza. Nessuno ci obbliga a seguirla ma tutti sappiamo che è lì. I personaggi non fanno altro che parlare a voce alta con se stessi e si lamentano delle proprie debolezze proprio come facciamo noi ogni giorno della nostra vita.
Qui sta la forza che secondo me The Place non ha saputo restituire sul grande schermo. Fidatevi, guardate The Booth at the End, dategli una possibilità e lasciatevi prendere dall’emozione nella semplicità delle riprese. Sedetevi anche voi a quel tavolo alla fine e godetevi ogni colloquio fino al bello e giusto colpo di scena.