
It – La trasposizione che non si può proprio criticare [NO SPOILER]
It è arrivato finalmente, e noi del MacGuffin siamo andati a vederlo per voi.
Provare a raccontare i propri miti non è mai semplice, a volte perché li si scopre degli stronzi inenarrabili, altre perché non si riesce a scindere se stessi da loro. Per questo mentre mi approccio a raccontarvi di It devo fare uno sforzo enorme per parlarvi di questo It e non dell’altro, quello che mi porto dentro io e che – per il 99% – arriva dalla carta inchiostrata da Stephen King.
Il primo capitolo di questa PRIMA trasposizione cinematografica (non è la seconda, cani, quell’altra era un film – peraltro ignobile – per la tv) del magnum opus di King si trascinava dietro un’aspettativa incredibile, corroborata da numerosi problemi produttivi, come ad esempio l’abbandono di Cary Joji Fukunaga (True Detective). Sarà riuscito il regista de La madre a superare la prova?

I punti nodali
Nel mio precedente articolo, in cui parlavo di quali sarebbero stati gli aspetti decisivi che avrebbero decretato le sorti della trasposizione dal romanzo, elencavo cinque punti nodali:
- Crudeltà: It è un horror, quindi di conseguenza deve spaventare e trasporre al meglio il male che innerva il romanzo. Non ci si può accontentare di una versione edulcorata.
- Atmosfera infantile: la magia di King sta nel riuscire a descrivere come nessun altro quel momento fondamentale della crescita che i sette Perdenti stanno vivendo.
- Mixare le storylines: nel romanzo ogni personaggio ha la sua storyline, sfalsata ulteriormente tra le due linee temporali del ’58 e dell’85. Anche questo aspetto è fondamentale per mostrare l’incredibile interconnessione che c’è tra momenti, luoghi e persone.
- Derry: saper ricreare la città di Derry era fondamentale per riuscire a restituire lo spirito del romanzo. La città è essa stessa un personaggio onnipresente.
- Pennywise: che ve lo diciamo a fare? Non esiste una grande trasposizione di It senza un grande Pennywise.
Il successo di Muschietti
Ebbene diciamolo finalmente: Muschietti ce l’ha fatta. Pur avendo a che fare con un romanzo sostanzialmente impresentabile vista la sua mole, la sua complessità, i tanti personaggi così tanto ben approfonditi, la ridda infinita di rami collaterali, narrazioni trasversali, parti affidate al monologo introspettivo e alle lunghe digressioni storiche su Derry, il regista è riuscito a cogliere lo spirito che King ha infuso nella sua opera e l’ha fissato su celluloide dando corpo a un film inattaccabile, splendido sotto ogni punto di vista.
Innanzitutto la paura c’è, il sangue pure e allo spettatore non viene risparmiato nulla degli orrori che il mostro compie. Se vi aspettate una versione 2.0 di Stranger Things (il primo a cui sento dire che It si ispira a Stranger Things lo defenestro) state alla larga perché questo è un horror per davvero.
La fedeltà al romanzo è quasi filologica (a parte alcuni aspetti che non sono affatto cinematografici e che dunque dovevano essere tagliati/modificati, vedi il rito di Chüd), i personaggi e la loro resa sullo schermo sono fantastici, soprattutto per quanto concerne i sette Perdenti che sono caratterizzati alla perfezione e sembrano usciti direttamente dalle pagine del romanzo. Unica (piccola) pecca è Mike, al quale viene concesso davvero pochissimo spazio, ma che ha tutto il tempo per rifarsi nella seconda parte.
Un applauso enorme a chi si è occupato del casting perché è riuscito a scovare attori giovani, bravi e che si calano nella parte splendidamente: due su tutti la giovanissima Sophia Lillis/Beverly Marsch, adorabile in ogni inquadratura, e Finn Wolfhard (il Mike di Stranger Things), ovvero lo spassosissimo Richie Tozier.
La scelta di non mescolare – come nel romanzo – i due piani temporali (Perdenti da bambini e da adulti) era già nota in precedenza, già sfruttata nella serie televisiva del 1990 e aveva fatto storcere il naso a molti (me compreso), anche se alla fin dei conti resta quella più cinematograficamente sensata, soprattutto in vista di un sequel. Realizzare per primo un film incentrato sulla paura infantile, sul racconto di formazione in salsa horror che è questo film, per poi proseguire con un secondo capitolo che tratta della versione adulta degli stessi personaggi alle prese con lo stesso demone è quella più “ordinata”, e che permette uno sviluppo più lineare di una storia già di per sé intricata.
Per raccontare Derry, invece, viene scelto lo stratagemma di dedicare parecchio spazio alle indagini storiche di Ben (sull’adorabilità di Ben/Jeremy Ray Taylor si potrebbero scrivere interi trattati), dei numerosi eccidi e disgrazie che affliggono la comunità del Maine praticamente dalla sua fondazione, sottolineando l’intima connessione con la mostruosità di It, vero e proprio padrone della sua zona di caccia prediletta. La città, la glaciale e terribile indifferenza dei suoi abitanti adulti, tutti caratterizzati in negativo e di ostacolo ai Perdenti, sono resi al meglio e – anche se relegati sullo sfondo – contribuiscono alla sensazione di isolamento che colpisce i protagonisti.
…e infine Bill Skarsgard, sul quale ricadeva la maggior parte dell’aspettativa del grande pubblico, non fallisce nel portare in scena un personaggio spaventoso come non mai (Tim Curry je fa ‘na pippa, tanto per essere oxfordiani). Divertente, ma crudele, evanescente, ma allo stesso tempo onnipresente, caratterizzato da un costume secentesco che suggerisce la sua atemporalità, il suo esistere da sempre. Skarsgard regala una prova encomiabile, che è già iconica e indimenticabile, portando sullo schermo un Pennywise classico, ma moderno: terribile, crudele e meraviglioso.
It e il potere delle storie
…ma It è un film per tutti?
La risposta – come quasi sempre – è sì… ma anche no. Per quanto il film sia stato concepito per il grande pubblico e per quanto piacerà sicuramente anche ad alcuni non amanti dell’horror, non è di certo un film adatto a chi è facilmente impressionabile. Arti mozzati, sangue a fiumi, bambini trucidati, accoltellamenti, gole aperte… il gore non manca di certo. Non lasciatevi ingannare dal fatto che i protagonisti siano bambini: per quanto i momenti gioiosi siano tanti, per quanto spesso la paura venga smorzata da una risata, It è e rimane un horror.
Dunque si tratta di un film riservato solo ai fan dell’horror duro e puro?
Assolutamente no, perché lo scopo primario di Muschietti (e dunque quello di King) non è solo di provocare orrore e raccapriccio, ma di raccontare una storia di formazione che indaga sugli incubi infantili e sul loro riverberare sull’età adulta, di come le catene della società tendano ad opprimere sempre e solo i deboli. It parla di incomunicabilità, di crudeltà e indifferenza, di coraggio, amicizia, dell’epoca dorata che separa il bimbo dall’adulto, parla di memoria e giuramento.
Ricordo quando da ragazzino per la prima volta mollai il romanzo: non avevo mai letto nulla di King e mi aspettavo qualcosa di ben diverso. Il pagliaccio si vedeva poco, si raccontava di città inventate, di inutili episodi di cronaca, personaggi strani, prima bambini, poi adulti, poi di nuovo bambini, un gran putiferio di gente che va, gente che viene… “Dov’è il pagliaccio assassino?” pensavo “Dove sono gli spaventi che vado cercando?”. Ecco, ricordo bene il motivo per cui la prima volta non mi piacque il libro e – temo – sia proprio lo stesso motivo per il quale sta avendo successo il film: la gente cerca in It lo spavento che è preludio di morte, mentre invece ciò di cui sta raccontando King è la meraviglia, ambasciatrice della vita.
Nella storia raccontata in questo film c’è la paura per lo spazio buio tra il muro e l’armadio, del mostro sotto il letto. C’è la storia di ogni adolescente tra soprusi e angherie, c’è il riverbero dei fantasmi infantili sulla nostra vita da adulti, ci sono sia la linea d’ombra che il cuore di tenebra. Ebbene, se andate al cinema non andateci solo alla ricerca di uno spavento facile, ma col cuore bisognoso di meraviglia, di quella cosa che lo stesso Stephen King (proprio nella dedica di It) definisce come “la verità dentro la bugia”, cioè il romanzesco, la capacità di sentirsi umani grazie a una bella storia.
E quella di It è una delle più belle storie che ci siano mai state raccontate.
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