
John Woo, Face Off: cinema d’azione o d’autore?
Il film è Face Off (distribuito in Italia con il sottotitolo Due facce di un assassino), ed è una storia vecchia – di gangster, di organizzazioni criminali, di terroristi versus FBI – che si contamina con diversi elementi di novità per il genere action thriller.
L’anno è il 1997: un’epoca ancora lontana dalla nuova tendenza “autoriale” che caratterizza il cinema di oggi, in cui anche film che più “di genere” non si può (come i cinecomic, tanto per fare l’esempio più macroscopico) portano, chiarissima, la firma di un regista, o almeno di una casa di produzione con un’idea ed un messaggio forti da comunicare.
Il regista è John Woo: cinese trapiantato negli Stati Uniti che del cinema di genere, e in particolare del cinema d’azione, ha fatto la sua unica musa, ciò che lo ha reso famoso da subito al di là del Sol Levante.
Face Off: un punto d’incontro
E perché questo regista è diventato così famoso, famoso al punto da aggiudicarsi la regia di un blockbuster assoluto (ed imperdibile, eccezionale) come Mission: Impossible II?
Beh, perché ha portato davvero qualcosa di nuovo, una ventata d’aria fresca nel mondo dei polpettoni d’azione American style: e lo ha fatto proprio con Face Off, primo lungometraggio di successo del suo periodo di lavoro a Hollywood.
Questo film rappresenta, infatti, la miglior fusione possibile tra le due anime di John Woo: quella a cui appartengono le sue radici, che affondano nel cinema di genere indipendente rigoglioso nella Hong Kong degli anni ’80; e quella dell’autore che si proietta nel firmamento dei nomi grandi e persino “commerciali”, passando, per forza di cose, per gli Stati Uniti.
Face Off si situa, possiamo dire, in un punto d’incontro, un momento intermedio tra la prima produzione del regista cinese (che aveva dato titoli eccellenti come A Better Tomorrow, The Killer e Hard Boiled) e la seconda, che ha forse sofferto un po’ troppo della sempre più diffusa “ossessione del kolossal/blockbuster” (e si vede bene, questa tendenza, in film come Windtalkers o Paycheck, molto più farragginosi, impacciati e pretenziosi).
Qui non c’è il provincialismo forzato dei film precedenti (l’industria cinematografica di Hong Kong non brilla certo per la distribuzione su scala mondiale), ma non ci sono nemmeno gli arzigogoli scenografici e sensazionalistici che solo un budget hollywoodiano può provocare: Face Off prende il buono da entrambe le sponde.
Sponda Est: John Woo e la spontaneità
Che cosa si porta John Woo dall’Oriente, da casa sua?
Quel suo modo di girare e di intendere il cinema, possiamo riassumere rapidamente. Un modo che è davvero una “maniera” autoriale, in cui ogni dettaglio è voluto, cercato fino in fondo: quel velo di “sporcizia” che sembra avvolgere la pellicola per renderla d’epoca o di serie b (estetica molto tarantiniana, per intenderci), accompagnato (e qui, invece, in modo molto diverso da Tarantino) da una drammatizzazione, un’enfasi nei dialoghi e nelle dinamiche, un sentimentalismo tutti orientali, sono uno dei marchi di fabbrica di Woo: non è da tutti girare un film d’azione capace di portare sullo schermo il tema dello sdoppiamento della personalità, della crisi d’identità, delle luci e ombre che caratterizzano i buoni e cattivi, che quindi non sono mai veramente “buoni” o “cattivi”.
Non è da tutti, e se a questo si aggiungono le “fisse action” di cui ogni film di John Woo è pieno zeppo (dalle spettacolari sequenze di sparatorie, agli inseguimenti con ogni mezzo e su ogni terreno, alle colombe simbolo di pace che svolazzano nell’inquadratura proprio nel corso dello scontro finale, come monito) si ottiene un film d’azione perfetto.
L’ispettore Tequila è sbarcato negli States, e continua a fumare e suonare con malinconia il clarinetto in un jazz club pieno di sudore, tra una sparatoria in volo e l’altra (i miscredenti che non lo hanno ancora fatto, volino a vedersi Hard Boiled subito dopo Face Off, per capire).
Sponda Ovest: John Woo e il realismo
C’era ancora qualcosa, tuttavia, di cui nel cinema di John Woo si sentiva la mancanza.
Guardando i suoi film degli anni ’80, non si può non avere l’impressione (quale che sia il giudizio finale sul film) di una realtà molto distante da noi: è come se lo schermo innalzasse un muro d’irrealtà tra gli spettatori e i personaggi. Sono storie epiche, in cui il contesto locale e temporale è solo un pretesto per veicolare delle emozioni universali e assolute. Ma forse un po’ “troppo” assolute, o troppo poco, ed è questo il problema: non ci si riesce ad immedesimare in questi personaggi “assolutamente buoni” o “assolutamente cattivi”, che si sparano addosso in nome degli ideali più autentici e profondi, ma sempre nel mezzo di qualche faida da mafia cinese.
Il realismo arriva (anche) quando si è in grado di mettere in scena una storia che sappia toccare le corde di qualsiasi anima: e la soluzione per trovare questo effetto non è l’accrescimento della distanza tra la storia e lo spettatore (cosa che invece è decisamente tipica dell’estetica orientale). Tutt’altro: si tratta, paradossalmente, di accentuare il dramma, di estremizzare e complicare ogni situazione in modo che chiunque, in qualche modo, ci si possa ritrovare.
Ed è proprio questo che fanno gli immensi John Travolta e Nicholas Cage in Face Off. Sono due star, due attori conosciuti in tutto il mondo, che si trovano ad interpretare, entrambi, gli stessi due personaggi, le stesse due facce: quella di Sean Archer, agente FBI tutto casa-famiglia-lavoro-patria, e quella di Castor Troy, super terrorista completamente pazzo, nemesi di Archer. Il resto della trama non è importante, sono i due attori, i due personaggi e la regia di Woo a tenere in piedi il film.
È tutto completamente irreale, e lo sappiamo bene: è irreale un intervento chirurgico che permetta di scambiare alla perfezione due volti, è irreale che tra un agente FBI e un criminale si instauri un rapporto simile a quello che si instaura tra due cavalieri impegnati in una giostra medievale, o tra un Jedi ed un Sith; sono irreali l’inseguimento in motoscafo e le colombe in chiesa. È irreale che un bambino con le cuffione alle orecchie faccia sentire a tutti noi Over The Rainbow mentre tutto intorno si consuma una carneficina. E’ irreale che sia cinema d’azione, tutto muscoli, perché qui ai muscoli si uniscono, e vanno a comandare, il cervello e il cuore.
Sarà anche irreale, ma non importa: intanto noi restiamo a bocca aperta, a chiederci cosa ci sia di buono nei cattivi, cosa ci sia di cattivo nei buoni, e a divertirci come matti.